VITA, MIRACOLI E SVIOLINATE DI DARIO NARDELLA, IL SANCHO PANZA DI RENZI PARTE-NOPEO E PARTE LAMPREDOTTO CHE DA MUSICISTA AMBULANTE DIVENTERÀ SINDACO DI FIRENZE

Marianna Rizzini per "il Foglio"

La canzone era napoletana, non fiorentina, eppure si era a Firenze (esterno notte). La turista statunitense scottata dal sole stava mangiando, o forse bevendo ("venite a gustare il vino delle migliori cantine toscane", recitava il volantino multilingua lasciato sul bancone della hall di un albergo molto meno bello di quello dove la turista era andata a cena - hotel in verità ineguagliabile, con le volte affrescate e i saloni a perdita d'occhio e i mobili d'epoca e i divani da principessa e i lampadari e il cotto per terra, l'ambientazione adatta a sentirsi immersa "in un'atmosfera artistica": non si sa bene cosa volesse dire, "atmosfera artistica", ma questo il volantino diceva).

La turista americana, con altre turiste americane, era già brilla (o forse no) quando il cantante, proprio nel bel mezzo di una Firenze da Grand tour, con il Duomo davanti e le bancarelle di borsette in cuoio finalmente fuori dal campo visivo, cominciò a cantare melodie di un'altra latitudine ("Comme se frícceca / la luna chiena! / lo mare ride / ll'aria è serena... / E' pronta e lesta/ la varca mia... / Santa Lucia, / Santa Lucia / La tènna è posta / pe fa' 'na cena / e quanno stace / la panza chiena / non c'è la mínema melanconia/ Santa Lucia / Santa Lucia!").

Ma chi poteva accorgersi, tra i turisti d'oltremare seduti ai tavoli, che quello era dialetto napoletano e non fiorentino, in fondo. In ogni caso si faceva ascoltare, il tizio. Soprattutto, diceva la turista all'altra turista, "c'è anche il violino" (poi scattava la mancia, come racconta un testimone oculare). Metti un violino e pure "Santa Lucia" diventa Bach, alle orecchie di un forestiero innamorato dell'Italia per com'è nella sua mente (musica, vino, vino e musica, monumenti, polvere di stelle).

Fatto sta che in quella sera di fine anni Novanta, come in tante altre sere agli albori del nuovo millennio, il violinista di quell'ensemble da ristorante si chiamava Dario Nardella. Nardella, cioè l'attuale "sindaco reggente" di Firenze, ex deputato renziano ed ex vicesindaco renziano nonché renziano della primissima ora (talmente della "prima ora" che, prima di incontrare Renzi, Nardella aveva condotto una normale esistenza da militante diessino).

Il reggente-violinista, in attesa del voto amministrativo di maggio, dopo le dimissioni da deputato date per "evitare di avere il paracadute", è stato ora incoronato alle primarie per il candidato sindaco con oltre l'ottanta per cento dei consensi - "quasi quasi mi sembra di stare a Sofia", ha detto esultando il 23 marzo scorso, mentre amici e nemici ancora si dividevano sull'interpretazione del voto ("l'affluenza, guardate l'affluenza", è il leitmotiv degli uni e degli altri: c'è chi la vede comunque alta e c'è chi la vede comunque bassa.

L'affluenza è stata di 11.500 voti contro i 37 mila e passa delle primarie per il sindaco del 2009, ma era tutta un'altra storia. Le leggende narrano comunque di un Nardella intento a fare prove generali di campagna elettorale vera e propria, con i creativi che si affollano alla sua porta proponendo slogan anche bislacchi (uno su tutti, scartato per ovvie ragioni, prevedeva soltanto una domanda - "Matteo chi?" - con sotto la foto di Nardella).

"Ha dimostrato una volta di più di non essere un catapultato, Nardella", dice la senatrice pd Rosa Maria Di Giorgi, convinta che il candidato sindaco e reggente, "già figura nazionale, saprà dare a Firenze uno standard internazionale: per lui questo non è un ritorno tra confini angusti". Di Giorgi, inseparabile compagna di Nardella per le campagne elettorali, era "abbinata" a lui nella concione per le primarie per il Parlamento - un uomo e una donna, bisognava votare, in ossequio alla parità di genere. Era poco più di un anno fa, e l'attuale reggente ottenne 9.188 voti.

"Non aveva avversari temibili alle primarie", dicono invece di Nardella i nemici interni, citando quello che secondo loro sarebbe stato l'avversario temibile, e cioè Eugenio Giani, sempre renziano, presidente uscente del Consiglio comunale, consigliere regionale e presidente del Coni locale (su Panorama David Allegranti lo descrive come "politicamente ubiquo: mangia l'antipasto al Coni, il primo in qualche associazione sportiva e il secondo alla cena sociale della Fiorentina").

Ma è proprio a questo punto, tra gli amici che tirano di qua e i nemici che tirano di là, che entra in gioco il Nardella "violinista sul tetto", quello che nel film di Norman Jewison se ne stava in silenzio a suonare, nella Russia prerivoluzionaria, indeciso se emigrare o no: Nardella è emigrato l'anno scorso a Roma e ora è tornato indietro, è stato propaggine (di Renzi a Roma) ma anche irrimediabilmente radice (di Renzi a Firenze), ed è lui, infatti, che Renzi voleva a Roma e lui che Renzi vuole a Firenze ("perché, come la giri la giri, il loro sodalizio è un monolite", dice un comune amico).

Dunque Nardella, il trentottenne ex deputato anche detto "San Sebastiano" per la propensione al sacrificio se non al martirio (quando era vicesindaco e c'era da domare la rabbia dei baristi desiderosi di mettere infiniti tavolini davanti alle loro botteghe), s'è fatto reggente. Solo che stavolta, dice chi lo conosce, "per lui non è un sacrificio, anzi".

Ma come?, si chiedono i profani, quelli a cui pareva più appetibile, a occhio, un posto al sole a Roma: Nardella era quello che andava in tv quasi quanto Maria Elena Boschi e Simona Bonafé, e, raccontano dai meandri del Pd renziano, "con buoni ascolti"; era quello che, secondo i retroscenisti, teneva i rapporti diplomatici con l'apparato del Quirinale grazie all'amicizia con uomini stimati dal Quirinale (Giovanni Matteoli) e con "ragazzi" che il Quirinale lo conoscono bene (Carlo Guelfi, capo segreteria del Colle, e Ivano Russo, coordinatore di ItalianiEuropei Napoli e consigliere di amministrazione della Fondazione Mezzogiorno Europa).

Non solo: Nardella era quello che nel gioco delle parti con l'ancora sindaco Matteo doveva pacatamente dire ciò che Renzi non diceva e magari pure smentiva, per esempio "cambiamo nome al partito e chiamiamoci ‘Democratici'" (questo era l'azzardo di Nardella sul Corriere della Sera all'indomani del "massacro di San Valentino", come lo chiamano i cinici del Transatlantico, massacro di resistenze del vecchio Pd nei giorni precedenti e successivi al 14 febbraio 2014, quando fu chiaro che il cambio di premiership era ormai cosa fatta).

Più sommessamente, Nardella poteva dire (anche a questo giornale, a Claudio Cerasa, qualche mese fa) che non aveva senso che Renzi restasse a Firenze, e che anzi doveva andare a Roma e candidarsi alle primarie da segretario, concetto che l'estate scorsa ancora pareva eresia a molti renziani.

Tuttavia sembrava che, per uno scherzo crudele del destino, a Nardella venisse sempre proposto ciò che non voleva. Capitò anche ai tempi dell'ascesa a sindaco di Renzi: si sapeva, perché lo aveva detto lui stesso in campagna elettorale, che Nardella, già responsabile Cultura nel partito, puntava a diventare assessore alla Cultura. Renzi decise invece di affidare l'incarico a Giuliano da Empoli (poi uscito dal cono di luce del "big bang"), ma a Nardella disse: "Vedrai che ti farò una proposta che non potrai rifiutare".

Detto e fatto. Nardella divenne vicesindaco, con tutti gli onori ma pure (soprattutto?) con tutti gli oneri. E dunque ci si aspettava che al Nardella del 2014, avamposto di rottamazione addirittura governativa, uomo persuaso che nessun cambiamento in politica possa avvenire "senza fratture" (così dice Nardella il violinista, diplomato al Conservatorio Cherubini di Firenze nel 1998), non risultasse appetibile, ora come ora, il ruolo di sindaco di Firenze. Un ruolo sognato magari in altri tempi, pensavano gli osservatori (per esempio l'anno scorso, quando Renzi aveva invece deciso di restare sindaco), ma pure un ruolo da rifuggire mentalmente adesso che il gioco s'era fatto duro a Roma.

"E invece no, Nardella è convintissimo, questa è una grande sfida per lui e un'occasione di crescita anche personale imperdibile", dice il senatore pd Vannino Chiti, che per primo se lo vide attorno, il violinista-politico neanche trentenne, come factotum da campagna elettorale nel lontano 2001. Anche allora la musica venne in soccorso alla politica, ché Nardella e altri "giovani attivisti con il pallino dello strumento", così li racconta Chiti, se ne andavano in giro con i pacchi di volantini e gli archi in spalla, pronti a improvvisare a ogni angolo della strada comizi-concerti.

Quella fu la prima di una lunga serie di collaborazioni di Chiti col giovane Nardella, nel frattempo anche laureato in Giurisprudenza e dottore di ricerca in Diritto pubblico (in seguito docente in Legislazione dei Beni culturali), tanto che nel 2006, quando Chiti divenne ministro dei Rapporti con il Parlamento nel governo Prodi, Nardella fu nominato suo consigliere giuridico (la prima trasferta a Roma, ma a Firenze Nardella teneva un piede, come consigliere comunale nella giunta di Leonardo Domenici).

Chiti fu anche, più che cupido, cemento della relazione tra Nardella e la giovane Chiara Lanni, italiana di madre francese, allora studentessa impegnata in politica e ora coordinatrice pedagogica esperta nella gestione degli asili nido, moglie e madre di Cosimo e Amélie - il terzo figlio è in arrivo, con cesareo programmato due giorni dopo le comunali, motivo per cui a casa Nardella si spera vivamente, per quanto riguarda il Nardella padre, in una vittoria del Nardella politico al primo turno.

Chiti fu testimone di nozze dei due (che già si conoscevano ma che in quella campagna elettorale si scoprirono seriamente innamorati - complici, pare, i suddetti concerti-lampo di Nardella, molto diversi da quelli al ristorante per turisti che pure il giovane Dario continuava a fare con l'intento di racimolare una cifra sufficiente a mantenersi).

Testimoni narrano che al suo matrimonio Nardella avesse evitato di proporre agli ospiti l'intero repertorio di "Ave Maria" (non di Schumann) con contorno di "concerto in Re minore" di Bach, ma la leggenda li smentisce: Nardella a tutti i matrimoni dei colleghi renziani, Luca Lotti compreso, prende il violino e suona l'"Ave Maria" (non di Schumann) e volendo anche qualcosa di Bach.

I Nardella sono religiosi, anche se sono arrivati da adulti, con percorsi graduali e personali, all'attuale grado di religiosità. Voleva davvero fare il musicista, Nardella, appena uscito dal Conservatorio, ma, racconta un suo amico, diceva di "non sentirsi abbastanza bravo per poterci davvero vivere". Da lì la laurea in Legge.

"Ma l'istinto politico era presente in lui anche negli anni del Conservatorio", dice oggi al Foglio il suo ex professore e direttore d'orchestra Alessandro Pinzauti, che all'epoca prendeva amichevolmente in giro il Nardella "sindacalista" che voleva lanciare e tutelare "l'orchestra del Conservatorio" e che "già manifestava un'attitudine all'ascolto del mondo attorno a lui e la capacità di mettersi in discussione". "Ce ne fossero, di politici con un background simile", dice Pinzauti, che essendo un ex professore può poi permettersi di dire all'ex studente: "Speriamo che non ti guasti crescendo".

Nardella da studente era "disciplinatissimo", e ora, dice Pinzauti, "nei concerti che facciamo per l'Ordine degli avvocati si va a sedere in fondo ai secondi violini, molto concentrato". Al Conservatorio l'amarcord collettivo restituisce alle cronache un Nardella "garbato, benvestito, bravo ragazzo, distinto", come dice la veterana del centralino, signora Lina, di origine campana come Nardella, che è nato a Torre del Greco (con padre professore di scuola media anche esperto di antiche lingue indiane e nonno agricoltore in Puglia).

Lì è rimasto fino ai tredici anni, il giovane Dario, sviluppando un amore insopprimibile per la canzone partenopea - e vai a sapere, allora, che sarebbe tornata utile nella futura breve carriera del Nardella musicista ambulante da albergo: Hotel Astoria, per la precisione, la cosiddetta "gemma del barocco", antico palazzo le cui volte, ai tempi in cui Nardella suonava, erano allietate da concerti in costume rinascimentale (Nardella compreso).

Ora invece sono "funestate", dice un gentiluomo fiorentino, "da feste di Capodanno pubblicizzate sui siti locali". (Andando a cercare la pubblicità sui siti locali, in effetti, si trasecola all'idea di un palazzo Gaddi teatro di grandi bellezze fiorentine, con, testuali parole, "party impeccabili per chi, una volta tanto, vorrà assaporare il gusto dell'extra lusso a prezzi contenuti ed in compagnia di persone di sicura gradevolezza: verranno respinti gli ospiti in stato di ebbrezza, non sarà consentito un abbigliamento eccessivamente sportivo, non sarà la tipica festa ‘baraonda' e di massa, si potrà ballare senza il rischio di trovarsi in mezzo a ragazzi giovanissimi o un'accozzaglia di gente capitata lì per caso...".

Il portiere di vent'anni fa, ancora in servizio, saluta sempre Nardella quando entra all'Astoria, memore del giovane Zelig napoletan-fiorentino che, lungi dal partecipare a feste-baraonda, suonava il violino in maschera nelle sale ombrose dove John Milton aveva pensato il suo "Paradiso perduto" (e meno male che Nardella non ha mai avuto il physique del Satana caduto dall'Eden).

Tuttavia capita che non le mandi a dire, Nardella, uno che accettava di apparire il mite "uomo macchina" di Renzi solo perché questo era il tacito accordo tra i due, sancito implicitamente nel corso dei miliardi di sms che i due tuttora si mandano a fine giornata: io rompo, tu ricuci, io ricucio, tu rompi (e anche, dicono i conoscenti di entrambi, io dico sì e tu dici no, con Nardella che dice anche "no").

Ne sa qualcosa l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni, squalificato dall'allora deputato al microfono di Giovanni Minoli (durante una puntata radiofonica di "Mix 24"), al grido di "penso che il ministero dell'Economia debba essere guidato da un politico, come regola generale, perché abbiamo visto che l'esperienza dei tecnici non ha funzionato bene.

Penso sia grave quando un ministro importante come Saccomanni dice ‘sono un esecutore e nessuno mi ha istruito'". Subito dopo, in un perfetto gioco di ruolo con Renzi, lo stesso Nardella ammorbidiva, e la segreteria pd assicurava di "non voler rimpasti".

La musica è stata un "modello di comportamento e di disciplina", per Nardella, e anche "un viatico per la tessitura di rapporti diplomatici", dice un amico, e a quel punto la dietrologia si scatena: se chiedi "ma con chi ha parlato Nardella di musica?", qualcuno risponde "Bruno Vespa" mentre altri si buttano senza indugio su "Giorgio Napolitano", immaginando un colloquio a tre Renzi-Nardella-presidente della Repubblica con Bach cuscinetto salvifico tra due o tre dossier della "svolta buona".

Qualcuno descrive Nardella "abituato ad aspettare e ascoltare" negli ambienti partitici come negli ensemble pianoforte- violino che ha cercato di creare in Parlamento, quando con Francesco Paolo Sisto di Forza Italia e Filippo Crimì del Pd faceva prove di larghissime intese musicali per una mai realizzata "Orchestra da Camera" (con la "c" maiuscola). A dispetto del look "lettiano", dice un compagno di partito, Nardella è "un finto moderato".

Ma al crescendo della tensione, all'esplosione di suoni, subito il Nardella-violinista vorrebbe far subentrare l'armonia. Cosa non sempre possibile (infatti a Firenze gli avversari interni, per ora silenti, lo attendono al varco). "Firenze mi ha dato tutto", ha detto comunque Nardella a "L'Arena" di Massimo Giletti, non si sa se sorridendo per il servizio sul parrucchiere suo e di Renzi (lo stesso) pronto "a dar battaglia" sul ciuffo che lo separa da Renzi (un tempo Nardella aveva pure il pizzetto).

Quando parla per Renzi, Nardella dice che per Renzi "sarebbe stato più comodo aspettare che le pere cadessero dall'albero", ma chissà se parla anche di sé. Di sicuro a volte scivola nel lessico-Leopolda: "Firenze è glocal", ha detto, facendo accapponare la pelle ai puristi anti-Eataly, dove comunque Nardella, ripetono sempre i suoi nemici, voleva portare le patatine San Carlo per tenere alta la bandiera nazionale tra mille fritti d'altra provenienza, tra lo sconcerto dei parzialmente convertiti renziani - ma in fondo sempre dalemiani - esponenti del Pd locale, quelli che, come l'ex sindaco Domenici, imitavano senza accorgersene persino la voce nasale di D'Alema, in perfetta mimesi lessicale e fonetica con lui.

Pare che Nardella, comunque e sempre violinista (suona per distendersi, e ovviamente ai matrimoni), spieghi il suo pendolarismo tra due amori, musica e politica, ricorrendo a una citazione di Giulio Carlo Argan ("la musica è metapolitica"). Ma gli amici dicono che senza la musica la politica per lui non sarebbe esistita, e per un motivo più psicologico che attitudinale: Nardella "è uno che ogni volta doveva forzare l'emotività per suonare in pubblico", dicono, e che quando si è specializzato a Lugano si chiedeva: "Riuscirò mai, con questa reticenza all'esibizione in pubblico, a fare davvero il musicista?".

Come accade per tutte le timidezze, vincere una volta non vuol dire nulla, tanto la timidezza si ripresenta. E però Nardella, a forza di suonare, ha perso pian piano la sensazione di stare in pubblico, davanti a cento e mille occhi (figurarsi davanti alla telecamera).

E ha perso anche la naturale schizzinosità da studente che divide la musica in alta e bassa, e la vita in cielo e polvere. Tutto è cielo e tutto è polvere, da lì la commistione serena tra animo diessino e animo renziano, tra Bach e "surdati 'nnammurati", tra Napoli e Firenze (oggi pare che Nardella, in treno, avvicinandosi a Santa Maria Novella, ogni tanto si metta a canticchiare "Firenze sogna").

 

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