UNA VOLTA ASSAGGIATO IL BENESSERE, UNO CI PRENDE GUSTO - MOISES NAIM: “LE PROTESTE IN BRASILE E TURCHIA DIMOSTRANO CHE LA GENTE NON SI ACCONTENTA DEL BOOM”

Paolo Mastrolilli per "la Stampa"

C'è un paradosso, secondo Moisés Naím: «Queste proteste nascono dal successo economico, in Paesi come Brasile, Turchia, Cile, che ha risvegliato nuovi bisogni sociali. Il problema è che il potere non è molto attrezzato a dare risposte, tanto da parte dei governi, quanto da parte dei manifestanti».

Naím, studioso dell'International Economics Program al Carnegie Endowment for International Peace, ex direttore della rivista Foreign Policy, ex ministro dell'Industria e Commercio in Venezuela, ha dedicato la vita a questi problemi. Da ultimo con il suo nuovo libro, «La fine del potere», che parla proprio degli squilibri globali generati dall'indebolimento delle istituzioni tradizionali.

Il Brasile passava per grande Paese emergente: ora si è inceppato?
«Diciamo piuttosto che è vittima del suo successo. La stessa cosa sta accadendo anche in altre nazioni, come la Turchia, il Cile, la Tunisia. Nell'ultimo decennio questi stati sono diventati modelli di crescita, basati sulla liberalizzazione dell'economia: il prodotto interno lordo è aumentato, così come il reddito pro capite, e le diseguaglianze sono diminuite. Anche in Tunisia, dove però il progresso non è bastato a salvare il governo di Ben Alì, e sono esplose le proteste da cui è nata la Primavera araba».

Se l'economia corre, perché la gente scende in piazza a lamentarsi dei mondiali di calcio?
«Questa esplosione di prosperità ha dato aspettative e voce a gruppi finora marginalizzati. Nel mio libro descrivo tre rivoluzioni in corso: la gente ha di più, è più mobile, e sta cambiando mentalità, anche grazie ai mezzi di comunicazione. Questa nuova classe media emergente sta sviluppando aspettative e aspirazioni ad una velocità più grande della capacità di risposta dei governi: prima volevano le scuole, ora vogliono scuole di qualità; prima chiedevano gli ospedali, ora vogliono ospedali che funzionino bene.

Così in Brasile si scende in piazza per domandare un esecutivo meno corrotto, che investa su queste urgenze sociali; in Cile gli studenti aspirano ad avere università buone, ma poco costose; in Turchia i cittadini si rivoltano contro un governo che impone le sue decisioni, senza ascoltarli».

Nel suo libro lei parla della debolezza del potere a rispondere.
«È un problema che riguarda i governi, ma anche i manifestanti. Infatti l'elemento comunque a tutte queste proteste è l'assenza di una leadership e un'agenda chiara: non c'è un Walesa, e neppure un Cohn Bendit. Sono manifestazioni catartiche, condotte da persone sfinite dalle difficoltà, che denunciano la corruzione. Ma così i governi, già deboli di loro, non hanno interlocutori. Non sanno nemmeno con chi negoziare, e cosa».

Rischiano di cadere?
«Non credo. Le proteste però attirano l'attenzione dei politici, chiarendo che il "business as usual" non è più sostenibile».

Quale via d'uscita prevede?
«I governi cercheranno di ascoltare e cambiare, ma daranno soluzioni parziali, perché non hanno la forza e le risorse per rispondere a tutte le nuove esigenze con la velocità richiede».

Perché la protesta globale si sta polverizzando, evitando vecchi target tipo il G8 o la Wto?
«A cosa serve manifestare davanti a queste organizzazioni? Non hanno la capacità di prendere vere decisioni, con conseguenze pratiche per la gente. Le proteste sono legate dal filo comunque globale di cui abbiamo parlato prima, ma scoppiano a livello locale perché partono da questioni concrete su cui sperano di avere un effetto diretto. Il problema è che l'agenda spesso resta vaga, e i governi non hanno la forza per rispondere».

 

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