Alberto Mattioli per la Stampa
Un film al quadrato, al cubo, all’ennesima potenza. Uno, nessuno, centomila Jim Carrey. Pirandello a Hollywood, un Truman Show ma dal vivo, maschere che si moltiplicano, si sovrappongono, si mescolano, finché non capisci più dove finisca la realtà e inizi la finzione, anzi se fra le due ci sia davvero differenza. Un gioiellino divertente e profondo insieme, con il titolo più chilometrico di tutta la Mostra, roba da Wertmuller. Tradotto, suona così: Jim & Andy: l’Aldilà - La storia di Jim Carrey & Andy Kaufman con una menzione molto speciale, come da contratto, a Tony Clifton .
Intanto, i personaggi. Andy Kaufman (1949-1984) fu uno showman americano eversivo ed eccentrico, con il fondo serio e malinconico di tutti i grandi comici. Un tipo destabilizzante che si rifiutava di fare ciò che ci si aspettava da lui, spiazzando pubblico, critica e colleghi. Tony Clifton è uno dei suoi personaggi più famosi, un cantante di Las Vegas aggressivo, alter ego che serviva a Kaufman per inveire contro se stesso. Infine, Carrey, la faccia di gomma più talentuosa di Hollywood.
I tre, Kaufman morto, Clifton virtuale e Carrey al suo meglio, si incontrarono nel 1999 sul set di Man on the Moon, il biopic di Milos Forman su Kaufman. Di Andy, Jim non realizzò un’interpretazione, ma l’incarnazione. E durante le riprese Lynne Margulies, la fidanzata di Kaufman, e Bob Zmuda, il suo autore, girarono dietro le quinte una specie di film parallelo. Queste immagini sono rimaste sepolte nell’ufficio di Carrey, finché Chris Smith le ha riesumate. Alternandole a una lunga e non banale intervista a Carrey, che con un’insolita barba bianca da Babbo Natale ci ragiona e si confessa.
L’aspetto più folle è che durante tutte le riprese Carrey «diventò» Kaufman (e Clifton) senza abbandonare mai i personaggi, in scena e fuori, in una specie di applicazione integrale del metodo Stanislavskij. Così non si capisce più cosa è fiction e cosa no, dove inizia la vita «vera» e dove finisce la recitazione, se chi vediamo è Carrey che fa Kaufman o Kaufman che fa Clifton o Carrey che fa Clifton. Finché questa specie di surreale reality show non si estende al set, con Danny De Vito divertito e Forman sempre più allibito (esilarante l’imitazione di Carrey nel documentario), anche perché il film a un certo punto diventa psicodramma e rischia di esplodergli fra le mani.
Per Carrey, fare, anzi incarnare Kaufman fu una specie di seduta psicanalitica. La sua biografia sembrava replicare quella dell’altro. E la riflessione sul mestiere dell’attore diventa quella sulla vita: «Quando fai un personaggio ti rendi conto che tu stesso sei un personaggio, che le persone ti vedono così e si aspettano che ti comporti così», ha spiegato Carrey in conferenza stampa.
Non senza rivendicare questo gioco di specchi come una mossa eversiva contro le ipocrisie del suo mondo: «Da giovane volevo avere successo ma non far parte del sistema. Volevo distruggere Hollywood e quelli che hanno sempre la risposta pronta, tipo Clint Eastwood, e prendere in giro i leader del cinema. Io sono autentico, ma l’onestà è sovversiva, nella città delle maschere». Capita così che un documentario su un comico che gira un film su un altro comico diventi il film forse più profondo visto finora a Venezia.