Andrea Scarpa per “il Messaggero”
A gennaio, presentando il suo secondo lavoro da regista, Tre sorelle (dopo Lockdown all'italiana del 2020), Enrico Vanzina - senza girarci intorno - aveva detto: «Mi prendo le mie responsabilità di uomo che fa un film sulle donne, ma di sicuro non ho la presunzione di dire qualcosa su di loro in generale. In questo caso, poi, racconto tre donne. E basta (erano Serena Autieri, Chiara Francini, Giulia Bevilacqua più Rocío Muñoz, ndr)».
Molte di più, invece, sono quelle con cui Enrico Vanzina e suo fratello Carlo (scomparso nel 2018 a 67 anni) hanno avuto a che fare nel corso di vite straordinarie - le loro e quella del padre, il grande Steno - tutte all'insegna del cinema. Nomi come Faye Dunaway, Daryl Hannah, Laura Antonelli, Stefania Sandrelli, Elsa Martinelli, Lauren Hutton e tantissime altre.
Proprio di donne si parla nella stanza del suo ufficio romano, ai Parioli, dove scrive e suona il piano tra libri antichi, quadri con foto in stile pop art (Vanzina ha conosciuto anche Andy Warhol), la laurea in Scienze politiche nascosta tra gli scaffali, due Telegatti (per I ragazzi della 3C del 1987). Enrico apre la porta a piedi nudi, sorridente, con i capelli da capo indiano di sempre.
Poi si siede, guarda una foto del fratello Carlo, e attacca: «Lui è sempre stato un grande scopritore di bellezze. Nel 1956 papà girava Mio figlio Nerone con Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Gloria Swanson e una giovanissima Brigitte Bardot. Un giorno la Swanson ci invita a casa, e ci regala armature da antichi romani. Io avevo 7 anni, Carlo 5. Io faccio il bravo bambino e la ringrazio subito, lui no. Mamma gli dice di essere gentile. Niente. Papà lo rimprovera. Muto. Papà si incazza. E Carlo: voglio la Bardot!».
E lei, chi voleva?
«A quell'età impazzivo per Marisa Allasio».
Crescendo quante volte si è innamorato di un'attrice?
«Ho avuto qualche storiella, ma zero amori. Le vedo troppo autoreferenziali, si credono il centro del mondo. Parlo delle star, ovviamente. Diciamo che sono attratto da cassiere, commesse, donne semplici. È anche vero, però, che la protagonista di un film deve sentirsi considerata da chi l'ha scelta e la dirige. Io e Carlo abbiamo sempre fatto credere all'attrice del momento che fosse la più desiderabile del mondo. La bellezza conta sul set».
Quanto? Più del talento?
«Tanto quanto. Alberto Arbasino una volta, negli Anni 50, chiese a Gary Cooper: cosa ci vuole per essere una grande attore? E lui, sorridendo: This, indicando la sua faccia. È vero. Per avere successo non basta il talento, ci vuole la presenza. Alcune grandi attrici hanno la capacità magica di far credere a tutti di essere meravigliosamente belle anche se non lo sono. La vera star riesce anche a far questo».
A chi si riferisce?
«Bette Davis, Katherine Hepburn, Meryl Streep... Hanno conquistato il mondo pur non essendo bellezze travolgenti».
La più bella con cui ha lavorato?
«Virna Lisi. Riusciva sempre a mettere in contatto la bellezza del suo viso con il cuore. E poi lei è stata bella a tutte le età. Una donna unica».
La più sorprendente?
«Faye Dunaway. Con lei nel 1988 girammo La partita. Era incredibile: sentiva la luce. Quando parlano e si muovono, le vere star riescono sempre a prendere il riflesso migliore per essere perfette. Anche Monica Vitti era così».
E Isabella Ferrari?
«Quando nel 1983 la lanciammo come Selvaggia in Sapore di mare, ruolo che poi lei ha odiato per anni, sul set capimmo subito che avevamo scelto la ragazza ideale per quegli anni. Bastava guardarla. Stesso discorso nel 1987 con Sabrina Ferilli, scritturata per I ragazzi della 3C: il mix bellezza-simpatia era impressionante. Era chiaro che sarebbe diventata popolarissima».
È vero che nel 2000 per Vacanze di Natale vi fu imposta la modella Megan Gale, quella degli spot telefonici?
«Sì. E la prima volta che venne sul set, all'alba, senza trucco, rimanemmo un po' così...».
Così come?
«Sempre bella, ma diversa. E poi molto alta. Le bellissime devono essere come Liz Taylor: piccoline».
Nel 2001 per il film South Kensington avete scritturato la top model australiana Elle Macpherson, detta The Body, 1 metro e 83 centimetri...
«Vabbè, lei era da buttarsi per terra. Come Carole Bouquet (protagonista nel 1983 di Mystère, ndr) e Renée Simonsen (star nel 1985 di Sotto il vestito niente, ndr): mai più visto uno sguardo come il suo. Carol Alt, invece, mi colpì per un irish coffee».
Che vuol dire?
«Il primo pranzo insieme, durante le riprese di Via Montenapoleone del 1986, ordinò solo un irish coffe. Le chiesi il motivo. E lei: Da ragazza ero grassa e brutta, e a scuola mi bullizzavano. Adesso sono bellissima e voglio rimanere così per sempre».
Cosa un po' impossibile.
«Già. Spesso la bellezza può essere una fregatura perché molti, vale anche per gli uomini, non la sanno gestire. Greta Garbo, per esempio, ne fu travolta. Una perfetta è stata Valentina Cortese, o Giovanna Ralli, ancora oggi fantastica».
Cosa ci vuole per gestire sul set attrici dal carattere e dalla bellezza così importanti?
«Pazienza. Dal trucco alle battute devono sentirsi sempre a loro agio, altrimenti recitano male».
E durante le scene di nudo?
«Tanta pazienza. A meno che non si lavori con Monica Bellucci. Come produttore nel 1991 lavorai con Dino Risi al film tv Vita con i figli, protagonista Giancarlo Giannini. A Pavia Risi, prima di una scena in cui doveva essere nuda a letto, le disse di mettersi sotto le lenzuola. E lei: Se devo essere nuda, nessun problema. E con una sicurezza mai vista si spogliò completamente davanti a tutti, attraversò lo studio, e si mise a letto. Una scena pazzesca. Rimanemmo a bocca aperta».
Di solito ci sono problemi?
«C'è chi ha chiesto il set vuoto come Carole Bouquet, le bende come ... Nel film con Boldi e De Sica Megan Gale non voleva essere ripresa e per una scena sotto la doccia, utilizzammo una controfigura. Alla prima cominciò ad urlare Stop the film!. Era nera. Pensava fosse lei».
Il primo amore?
«Barbara Mastroianni, la figlia di Marcello. Avevamo 16 anni. A lui piaceva molto avermi intorno nella sua villa a Castiglioncello, viveva circondato dalle tante donne della sua famiglia».
Sua moglie, la tedesca Federica Burger, quando l'ha incontrata?
«Nel 1975, in un bar di Porto Ercole. L'ho vista e le ho subito parlato: è stata il grande amore della mia vita».
Anni fa però vi siete separati e lei si trasferì a Milano, giusto?
«Sì, ma fu un errore. Dopo un po' dicevo bugie alla fidanzata per vedere mia moglie, così dopo un anno e mezzo sono tornato a casa. È stata la fortuna della mia vita. Non si è mai intromessa nel mio lavoro e mi ha sempre dato consigli giusti, quando glieli ho chiesti. Ci siamo sposati nel 1994 quando capimmo che per la legge italiana non esserlo faceva una grande differenza».
Per lei non era la prima volta, vero?
«Nel 1974 andai a Bangkok per lavorare al film di mio padre Piedone a Hong Kong. Li conobbi Tookata, una ragazza del posto di buona famiglia, mi innamorai e ci sposammo dopo poco con rito buddista. All'epoca ero vegetariano, avevo i capelli corti...».
federica burger enrico vanzina
E poi?
«Provai a vivere a Bangkok per qualche mese, ma fu un disastro. Poi lei venne a Roma, e fu anche peggio. Ci lasciammo senza drammi. A mia madre non piaceva tanto».
Com' erano i rapporti con lei?
«Difficili. Era bipolare e abbiamo vissuto grandi tensioni, che per fortuna prima della sua morte siamo riusciti a chiarire. Non ha mai amato il mondo del cinema e ci voleva diplomatici. Abbiamo fatto altro».
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