Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, stavo per scriverti una frase che suonasse più o meno così: “Che bello quando ti arriva un libro che decanta il piacere della lettura, un libro che tu divori tutto d’un fiato”. Solo che a scrivere così avrei corso il rischio di offendere questo raggiante librino di Luigi Mascheroni, “Libri”, secondo volume di una nuova ed elegante collana dell’editore Oligo di Mantova. E questo perché Mascheroni, scrittore/giornalista che lavora alla redazione cultura del “Giornale” di Milano ben noto a noi bibliofolli, questo libro lo ha scritto nell’intento di demitizzare l’idea che il leggere sia un “piacere” e che la sorte migliore di un libro sia quella di essere letto “tutto d’un fiato”.
Leggere è una scelta faticosa, talvolta ardua, talvolta ti ci devi arrampicare a mani nude per le pareti di un libro. Una scelta tanto più ardua in un Paese in cui si pubblicano 70mila volumi ogni anno e non c’è vedette televisiva che non ne firmi uno dopo esserselo fatto scrivere da un ghost writer. “Il libro è una sfida, non un passatempo” scrive Mascheroni.
Una sfida di chi lo scrive che viene raccolta da chi decide di leggerlo. Un fare a pugni talvolta tra scrittore e un lettore non pigro. E a parte che c’è “leggere” e “leggere”. Ancora Mascheroni: “L’importante non è leggere indistintamente o prendere un libro in mano solo perché pacifica la coscienza. Bisogna intendersi su quale libro. Tra Alberto Arbasino, o Guido Ceronetti, e gli ultimi venti Premi Strega; tra Cesare Pavese e il romanzo di un youtuber o di un deejay; ma anche soltanto fra Aldo Busi e Jonathan Bazzi; o fra Anna Maria Ortese e Teresa Ciabatti; ecco fra questi estremi ci sono dieci gradi di separazione a livello di costruzione narrativa, venti di ricchezza espressiva, e cinquanta per capacità di costruire un mondo e una lingua”.
Non esiste un astratto “leggere”, o un astratto “piacere della lettura” e tanto più in un mondo in cui sono in atto delle forme di comunicazione più possenti che non un romanzo, ad esempio le serie televisive, di cui Mascheroni ha perfettamente ragione nel dire che sono oggi quanto di più notevole ci sia in fatto di ricchezza e persuasività narrativa.
Leggere è ogni volta un’avventura ed è bene che lo sia, e questo vale tanto per un romanzo quanto per un saggio. (Premesso che il pubblico potenziale della saggistica colta, quella che non ripete a ogni riga quanto sia brutta la mafia o prende a calci negli stinchi ora Silvio Berlusconi ora Matteo Renzi, è oggi del 30/40 per cento numericamente inferiore a quello di 10/15 anni fa.) Non aggiungerò nulla a quel che Mascheroni dice del valore delle classifiche di vendita, fermo restando che io auguro ogni bene agli azzeccatissimi libri del mio amico Aldo Cazzullo, che restano in classifica per sei mesi, e questo sì che non è uno scherzo: significa che quei libri hanno occupato uno spazio grande dell’anima del pubblico reale. Di certo i posteri si faranno una strana idea del nostro tempo, stando al fatto che in cima ai saggi più venduti in questi ultimi mesi c’è stato un libro di Michela Murgia, sia detto senza voler offendere nessuno.
Resta il fatto nudo e crudo, quanto sia bello avere sul proprio tavolo un libro come quello di Mascheroni e leggerlo fino all’ultima riga, e non perché ti renda migliore o altro. E’ bello e basta.
PS, Con una sola osservazione dissenziente. Lì dove Mascheroni dice che uno potrebbe tirar via dalla propria biblioteca i libri ormai “superati”. Ma nemmeno per idea. Ciascuno di quei libri contrassegna (e immortala) un momento della nostra esperienza umana che ogni giorno che passa “supera” sé stessa. Sta in questo il valore di una biblioteca, il palpitante archivio di ciò che abbiamo vissuto e di ciò in cui abbiamo creduto. Come Mascheroni che di libri ne ha 20/25mila sa benissimo, libri di cui lui al modo di un’antifrasi scrive che “ne ha letti pochissimi”.
giampiero mughini luigi mascheroni