Estratto dell’articolo di Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera”
Torna ciclicamente d’attualità una nota ricerca di Christophe Clavé, docente di Strategia e Management all’Institut des Hautes Etudes Economiques et Commerciales di Bordeaux, secondo cui dal 1975 a oggi il Quoziente intellettivo medio della popolazione vivrebbe una lenta e continua flessione nei Paesi sviluppati. Tra le tante cause, la più significativa sarebbe l’impoverimento del linguaggio.
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Secondo quella ricerca, buona parte della violenza anche verbale pubblica e privata deriva dall’incapacità di esprimere i propri sentimenti e le proprie ragioni in una forma complessa con tanto di virgole, punti e virgola, varianti di lessico, sfumature di significati, coniugazioni verbali adeguate e architetture sintattiche non banali.
Se così fosse, la miseria del linguaggio e la povertà del vocabolario non sarebbero le conseguenze di una lacuna cognitiva o culturale ma la causa di un inaridimento del pensiero. È una faccenda su cui scienziati e linguisti di varia tendenza dibattono da molto tempo e che diversi scrittori distopici (Orwell in primis) hanno messo efficacemente in gioco. Ma è innegabile che la semplificazione all’osso del linguaggio, tipica della civiltà dei social, va di pari passo con la riduzione della capacità critica del cittadino.
IL LINGUAGGIO ALLA BASE DEL COMPORTAMENTO SOCIALE
Banalità teoriche che però comporterebbero riflessioni serie sull’importanza dell’educazione linguistica per la salute democratica. Ma di tutto si parla oggi tranne che di scuola e di istruzione. Forse perché anche il QI dei politici è irrimediabilmente in calo. Le catastrofi attuali, che non trovano mai soluzioni ragionevoli, ne sarebbero una prova drammatica.