Carlo Melato per “la Verità”
C'è chi parte per fare la storia e chi costringe la storia a passarlo a prendere, anche se è nato a Wolverhampton. È il caso di Dave Holland, gentleman del contrabbasso, diventato - per citare Sting - un «englishman in New York», senza però bastoni da passeggio o snobismi da principe Henry (e Megan Markle). Sul treno del jazz ci è salito da «underdog» (lo sfavorito che ribalta i pronostici) nel 1968, alla fermata di Londra. Ma con l'invito del «Principe delle tenebre», Miles Davis, a sistemarsi direttamente in prima classe, dietro la sua tromba.
L'episodio è noto ai cultori della materia eppure, a 76 anni, Holland - che a 22 improvvisava nei jazz club della Swinging London, senza badare alla british invasion del rock - lo racconta alla Verità come se lo rivivesse ancora una volta: «Stavo suonando al Ronnie Scott' s (locale londinese aperto nel 1959 e tuttora attivo, che ospitò anche l'ultimo concerto di Jimi Hendrix, due giorni prima della sua morte, ndr). Durante il set inizia a girare una voce impazzita: "Miles Davis è in sala". Per controllare l'emozione resto concentrato sulla musica. Poi, finito il concerto, lo cerco, ma di Miles non c'è traccia. "Era qui", mi assicurano, "ha detto che ti vuole con lui, chiamalo domattina in hotel". Ho il sospetto che sia uno scherzo ma il giorno dopo ci provo: niente da fare, dalla reception mi informano che è già tornato a New York».
Fine del sogno? Assolutamente no, sarà il telefono di Holland a squillare alle tre di notte, uno dei giorni seguenti. «Hai 72 ore per essere ad Harlem, venerdì si suona al club di Count Basie», gli dice il manager di Davis. E l'avventura, che nel 1970 lo porterà a esibirsi al festival dell'isola di Wight, davanti a 600.000 persone, e a partecipare all'incisione di Bitches Brew, uno dei dischi più rivoluzionari e citati della storia del jazz, ha inizio.
Cinquant' anni dopo, quel viaggio non è ancora finito. E domani farà tappa in Veneto, nella data regina del Padova Jazz Festival (cartellone ricco, fino al 26 novembre), con il quartetto all star Aziza (che comprende anche il sassofonista Chris Potter, Lionel Loueke alla chitarra ed Eric Harland alla batteria).
Mister Holland, ci racconta il suo sbarco a New York nel 1968 e soprattutto l'ingresso nella band di Miles Davis, al posto di un certo Ron Carter?
«Andò tutto molto in fretta. Dopo aver caricato in qualche modo il contrabbasso sull'aereo, mi ritrovai a casa del batterista Jack DeJohnette a dare un'occhiata ai brani che avremmo eseguito il giorno dopo. Miles lo incontrai direttamente sul palco. Attaccò il brano Agitation senza neanche salutarmi».
Un inizio non molto incoraggiante.
«Ai primissimi tempi avevo l'impressione che nessuno mi ascoltasse. Poi cambiai approccio, grazie a un libro sufi che stavo leggendo. Mi colpì questa frase: "Pianta la tua bandiera nel deserto". Ovvero, devi avere un'identità e dire chi sei, anche se ti trovi in mezzo al nulla. Da lì in poi conquistai il mio spazio. Seppi dopo dal pianista Herbie Hancock (che lasciò subito dopo il posto a Chick Corea, ndr) che la formazione, rimasta senza Carter, ingaggiava un bassista diverso in ogni città in cui faceva tappa, con esiti altalenanti. Forse si stavano abituando a non ascoltarlo più» (ride).
Della sua collaborazione con il grande trombettista restano tre dischi fondamentali: Filles de Kilimanjaro, In a Silent Way e Bitches Brew (mentre quel gruppo, di cui non abbiamo ancora nominato il sassofonista Wayne Shorter, verrà chiamato il «quintetto perduto» di Miles Davis, perché non lascerà traccia discografica di sé in studio). Qual è il consiglio più importante che le diede Davis in quel periodo?
«A forza di cercare la mia strada mi stavo lasciando prendere la mano e stavo suonando troppo. Provavo sempre a interagire con gli altri strumenti, facevo il contrappunto a tutti gli assoli. Miles mi ha lasciato vagare per i pianeti per un po'. Poi un giorno mi ha riportato sulla Terra fulminandomi con due o tre parole, come faceva lui. "Hey Dave", mi disse un giorno, "ricordati che sei un bassista". Stavo smarrendo la mia funzione. Da quel giorno ho cercato un equilibrio diverso tra interplay (il dialogo con gli altri musicisti, ndr) e il mio ruolo, che deve badare anche alle fondamenta della costruzione musicale».
Chi era per lei Miles Davis: un maestro o un amico?
«Avevamo un ottimo rapporto, ma non sono mai riuscito a considerarlo un amico. Forse per la grandissima ammirazione che avevo per lui. In quegli anni tutto il mondo voleva parlargli e gli ronzava intorno. Per certi versi mi sono preoccupato di non dargli fastidio».
Che ne pensa di Miles Ahead, il film che è uscito su di lui qualche anno fa?
«È terribile! Conferma le peggiori idee che ha di Davis chi non lo ha conosciuto. Mi ha deluso molto perché avevo capito che Don Cheadle (il regista e l'attore che interpreta Davis, ndr) avesse in mente tutt' altra cosa. Avrà dovuto accettare dei compromessi Non è la prima volta volta che i film sui jazzisti drammatizzano in modo eccessivo le loro vite».
A proposito di luoghi comuni, il fatto che Davis abbia scelto lei, un inglese bianco, come contrabbassista, sgombra il campo dall'ipotesi che per lui solo i neri potessero suonare il jazz.
«Ovviamente non lo pensava, basta prendere ad esempio l'album Birth of the cool in cui chiamò Gerry Mulligan e Lee Konitz... Per evitare questi equivoci però serve una premessa fondamentale: Miles era sempre provocatorio e mandava fuori strada tutti quelli che non stimava, confermando i loro pregiudizi. E spesso si trattava di giornalisti» (ride). «Per cui girano un sacco di frasi che lui ha realmente pronunciato, ma che sono totalmente fuorvianti. Come ad esempio quella su Eric Dolphy».
Cioè?
«Disse che suonava come se gli stessero schiacciando i piedi. Non pensava nemmeno questo».
Su queste colonne Wynton Marsalis ha detto che «il jazz non è una musica razziale»: non esiste quella per i bianchi e quella per i neri.
«Io la vedo così, il jazz è una grande casa nella quale ciascuno porta la sua identità culturale. Quella afroamericana è molto forte e chi ha quel tipo di radici condivide un percorso intenso, spesso formandosi nelle black church americane. Credo che sia un'esperienza unica, che io ad esempio in Inghilterra non ho vissuto. E infatti do un altro contributo. Così come i cubani hanno un modo unico di suonare, gli italiani il loro, mentre l'India del mio amico Zakir Hussain è un altro mondo ancora».
Tornando a Miles, il 10 luglio del 1991 Davis convocò per un concerto a Parigi i compagni di viaggio di una vita. Lei dice che non eravate amici, ma l'invito a partecipare al Miles Davis and friends arrivò anche a lei.
«Quando me lo proposero chiesi subito se era davvero un'idea di Miles. Anche oggi mi arrivano richieste di reunion improbabili senza capire chi ha avuto l'idea... Quella volta però era davvero un suo desiderio: Davis era totalmente coinvolto nel progetto, spiegava a tutti ciò che aveva in mente. Per certi versi stava facendo qualcosa di totalmente inedito».
Cosa intende dire?
«Per tutta la vita non si era mai guardato indietro, fermandosi su ciò che aveva già conquistato. Aveva sempre puntato verso il futuro. Quel concerto invece ripercorreva tutta la sua carriera. Ho un ricordo fantastico di quella giornata. Non so se Miles intuisse che pochi mesi dopo ci avrebbe lasciati, ma è stato il suo modo di dirci addio...».
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