"VIVEVO UNA VITA FATTA DI MORTE" - TINA TURNER RACCONTATA DA DUE PREMI OSCAR IN UN DOCUMENTARIO HBO CHE HA SBANCATO NEGLI STATI UNITI - LE BOTTE, LE INTIMIDAZIONI, LA PAURA COSTANTE, I PESTAGGI CONTINUI IN TOUR, IN MACCHINA, A CASA DA PARTE DEL MARITO IKE, I TENTATIVI DI SUICIDIO PER CERCARE DI USCIRE DA QUELLA SITUAZIONE IMPOSSIBILE - POI IL SUCCESSO IMPREVISTO QUANDO AVEVA PIÙ DI 40 ANNI CON IL PEZZO GIUSTO E LA SCOPERTA DELL’AMORE GRAZIE AL SECONDO MARITO...
Matteo Persivale per www.corriere.it
«Vivevo una vita fatta di morte». La voce di Tina Turner arriva dal passato remoto della sua vita straordinaria, da un vecchio nastro magnetico con il fruscio di sottofondo del registratore impolverato, il tasto «play» sbiadito.
Autunno 1981. Tina decide di raccontare alla rivista People, cinque anni dopo la separazione, perché ha lasciato il marito Ike, suo mentore, collaboratore e talent scout.
Racconta, al giornalista che registra incredulo - «doveva essere un’intervista come le altre, niente di speciale» - le botte, le intimidazioni, la paura costante, i pestaggi continui - in tour, in macchina, a casa - gli occhi neri, i tentativi di suicidio per cercare di uscire da quella vita impossibile.
L’orrore
Riascoltati oggi, tanti anni dopo, quei nastri fanno ancora orrore e sono alla base del documentario, Tina, mandato in onda dalla Hbo negli Stati Uniti con successo tanto clamoroso quanto imprevisto (ma lei, che oggi ha 81 anni, ha passato la vita a stupire chi la sottovalutava).
L’unica cosa che impressiona più delle vecchie registrazioni? L’intervista in video del 2019 nella quale Tina racconta ancora una volta la storia dei pestaggi ma aggiungendo dettagli in più, quasi in modo clinico, come se parlasse di un’altra.
Ike che impugna le forme di legno delle scarpe o le grucce dell’armadio, la pesta, la butta sul letto, «e poi mi prendeva», gonfia e sanguinante. Lei che finalmente decide di scappare dopo il pestaggio di Dallas, 3 luglio 1976, punita con un manrovescio per aver rifiutato un cioccolatino ciancicato.
Tina che si ribella per la prima volta, attraversa la superstrada a piedi («Ricordo il boato dei clacson di quei tir enormi») e si rifugia senza soldi nell’albergo di fronte: «Ho solo la carta a punti del benzinaio, se mi date una camera per questa notte vi manderò i soldi appena arrivo a casa».
La fuga
La fuga, la libertà, «mi sono accorta solo in aeroporto che era il 4 luglio». La festa dell’indipendenza. Tina è una storia di fantasmi e di abbandoni, triste e bellissima, la storia del trionfo sulla povertà, sulla paura, sulla violenza e sulla malattia. Non racconta solo una vicenda di abusi perché ridurrebbe una carriera unica a un semplice spot - sempre necessario, peraltro, purtroppo - sulla piaga delle violenze domestiche.
I registi, Daniel Lindsay e T.J. Martin, premi Oscar per un documentario del 2011 su una squadra di liceo che passa dalle sconfitte a ripetizione alla vittoria, non fanno sconti a nessuno ma non sono interessati a tenere comizi: sarebbe semplice dipingere Tina come l’agnello sacrificale di un mediocre, invece raccontano Ike Turner per quello che era, non un semplice mostro di crudeltà ma anche un uomo di genio, un musicista di classe assoluta ( Rocket 88, del 1951, è secondo molti storici della musica la prima canzone rock’n’roll), che ha il posto che merita (fedina penale a parte) nella Hall of Fame del rock.
La ragazzina timida
Lindsay e Martin ci portano con loro nella macchina del tempo: Ike nel 1957 dopo un concerto porge il microfono a una ragazzina che è andata a ascoltarlo in un locale, Anna Mae Bullock (va ancora a scuola), e lui capisce tutto al primo acuto. Nelle foto di allora non vediamo ancora la meravigliosa tigre del palcoscenico dei decenni successivi.
C’è soltanto una ragazzina timida con la frangetta tagliata dritta e il maglioncino. Però Ike sente quella voce. Così la veste - abitini stretti e pellicce - le cambia il look e anche il nome, Tina per assonanza con un personaggio della tv in bianco e nero di allora, Sheena la regina della giungla, perché Ike capisce che una tigre deve avere un nome così, Anna Mae andava bene per cantare il gospel nella chiesa battista e per raccogliere il cotone nella natìa Nutbush Tennessee, 250 abitanti.
Proprio a Nutbush assistiamo alla prima delle numerose sconfitte (temporanee) della invincibile Tina: prima scappa il padre, stufo del lavoro massacrante nei campi, poi la madre, lasciandola ancora bambina a cavarsela da sola (la ospiteranno dei cugini).
Ike le dà una famiglia (lui aveva due figli dalla prima moglie, lei ragazza madre uno), le dà un figlio, un nome e una carriera: poi però le chiede in cambio tutto il resto, i soldi (controllava tutto lui, lei non aveva letteralmente nulla), la sua dignità, la libertà artistica. La vita.
La libertà
Lei nel 1966 cerca di affrancarsi incidendo River Deep - Mountain High con Phil Spector, il genio del «muro del suono», altro uomo mostruoso (morto in carcere dopo una condanna per omicidio, sparò in testa a una ragazza conosciuta in un locale) ma dal talento senza limiti, Spector le dice «non cantare solo la melodia» e le regala per la prima volta, finalmente, libertà, pagando Ike per stare fuori dalla sala di registrazione (peraltro Spector ai funerali di Ike, 2007, insulterà Tina in un’orazione funebre meschina e crudele: la sua tesi è che Ike avrebbe potuto scegliere una fan a caso e trasformarla in Tina Turner).
River Deep - Mountain High per George Harrison era «un disco perfetto» ma inizialmente va male negli Usa perché era troppo avanti (in Italia ne fece una cover Iva Zanicchi ma questo purtroppo nel film non c’è), Spector perde molti soldi e Tina incassa la prima sconfitta senza Ike al suo fianco - e i registi vanno a recuperare un filmato del marito con ciuffo impomatato e baffetti che gongola, «era un disco troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri», mentre a lei che finge di succhiare una caramella vengono i lucciconi.
Il colpo da maestro degli autori di Tina è l’aver trovato, qualche anno fa, la vecchia casa dei Turner a Los Angeles ancora intatta, vuota, disabitata in attesa di compratori ma con le finiture intatte, i divani e le tende in velluto rosso pompeiano stile pappone anni 70, il boudoir, il bagno acquamarina, il letto circolare.
La casa dei fantasmi percorsa lentamente dalla macchina da presa mentre ascoltiamo i figli raccontare quello che succedeva dietro la porta della camera da letto, le urla durante i pestaggi e le violenze, le lacrime, le rassicurazioni desolanti ai bambini che chiamano la mamma: «Va tutto bene amore non preoccuparti, torna in camera tua».
La ripartenza
I primi anni di Tina senza Ike - lei gli lascia tutto, diritti sulle canzoni, casa, soldi e macchine, chiede solo al giudice i diritti sull’utilizzo del nome «Tina Turner», «voglio solo la pace» - sono difficili, economicamente e artisticamente.
Concerti dove capita, la diva diventata supporter finita a cantare nei casinò, comparsate ai quiz televisivi per ex celebrità bollite dove a Tina - bella come il sole - il conduttore con cravattone e giacca inamidata chiede viscido «dov’è Ike?» e lei risponde «non lo so», sorridendo, nella voce il dolore di colei che capisce che non si libererà mai del suo aguzzino.
Il buddhismo la aiuta a ritrovare equilibrio - ascoltiamo anche il suo mantra, ipnotico, affascinante - e lei continua a studiare ballo, nuove coreografie, migliora la tecnica perché «non credevo di avere una bella voce, non avevo la voce di Diana Ross», e il trionfo di Tina Turner è anche il trionfo di una voce da mezzosoprano per niente classica, non la più agile né la più bella né la più cristallina, ma la più indimenticabile.
Il sogno
Un giovanissimo impresario australiano va a vederla in un night, lei che potrebbe essere sua madre canta mentre la gente sta cenando. Una delle più grandi artiste musicali del dopoguerra canta cercando di sovrastare il rumore di posate e chiacchiere, lui dopo, forse per gentilezza, le chiede quale sia il suo obiettivo e lei risponde sicura «riempire gli stadi» come Mick Jagger al quale aveva insegnato a ballare tanti anni prima, una frase che adesso suona come la profezia che è stata in realtà ma allora deve essere sembrata il sogno impossibile e un po’ patetico di una cantante ultraquarantenne passata dal successo discografico anni 60 ai piano bar del 1980.
Invece Tina si trasferisce a Londra, «tanto non avevo amici in America quando stavo con Ike», il tempo passa, l’impresario tenta il tutto per tutto e le presenta un tizio che ha scritto una canzone. «Entro in studio e c’è questo omino seduto su una sedia, con i piedi che non toccano terra, e penso: chi è, uno gnomo?».
L’omino, però, ha scritto una canzone che si chiama What’s Love Got to Do with I t. E qui Tina diventa la storia della vittoria contro tutti: i milioni di copie vendute dal disco del ritorno di Tina sul suo trono, Private Dancer. I concerti, la pioggia di Grammy, il tour senza fine che riempie gli stadi come aveva previsto lei anni prima in quel night che sapeva di cucina e sigarette, Rock in Rio e 180 mila persone che la acclamano, lei che scende dal cielo su un enorme braccio meccanico e scavalca la rete di sicurezza per sporgersi, perché tanto non ha paura più di niente.
La fama globale mentre Ike musicalmente scompare, la ricchezza, la lunga solitudine che viene spazzata via nel 1986 da quello che dopo decenni di amore diventerà il suo secondo marito, il manager discografico Erwin Bach, tedesco, 17 anni più giovane ma sembrano 27, pare un ragazzino ma è l’uomo al mondo più diverso da Ike: educatissimo, premuroso gentleman che le apre sempre la porta, assoluta discrezione (finiranno a vivere in una bella villa lacustre in Svizzera, lei ha anche preso la cittadinanza), profilo bassissimo, indipendenza («Per splendere non ha bisogno di togliermi luce», spiega Tina, ultima stoccata per il fantasma di Ike).
Nell’ultimo atto del documentario Bach è il quieto supereroe che risolleva non solo l’umore di Tina, a quel punto nel 1986 vincente ma sola: salva anche la reputazione del genere maschile dopo la parata di uomini osceni - il padre di Tina, Ike, Spector - che si avvicendano nel film. Bach, quando Tina ormai anziana si ammala gravemente, le dona un rene salvandola dalla condanna alla dialisi e confermando ancora una volta tutto quello che lei aveva sempre pensato di lui: «Mi ha insegnato cos’è l’amore».
Prima dei titoli di coda c’è tempo per l’epilogo con il musical sulla vita di Tina che trionfa a Londra nel West End, poi a Broadway, e qui i registi trattano con infinito rispetto il passo non più spedito di Tina quando arriva alla prima, al braccio del marito non più ragazzino ma bel signore ultrasessantenne.
La tigre si risveglia però dietro le quinte: quando la protagonista la invita in scena, Tina entra con la grinta dei bei tempi, illuminata dai riflettori, avvolta da un uragano di applausi che sembra non finire mai.
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