DAGOREPORT
bar SettembriniQualcuno, con sapido richiamo alle canzoni di Ligabue, ha iniziato a chiamarlo "Bar Mario". Non c'è giorno infatti che la pingue figura di Mario Orfeo non solchi beata Via Luigi Settembrini, rione Delle Vittorie, Roma Prati, coprendo i cinquanta metri nei quali il nuovo potere romano si mostra, tra un colpo di clacson e un parcheggio selvaggio: «Spostate le macchine, sono arrivati i talebani vestiti da vigili».
Accade di rado. Il traffico lo smista Orfeo. Cammina, sorride, abbraccia, saluta. I camerieri, dopo apposito aggiornamento professionale, hanno imparato a distinguerlo dalla quercia che getta ampi spettri d'ombra sui tavolini (scomodissimi, ma un sacco belli) che un giorno ospitarono il Bar Giolitti e il ristorante Micci.
Il rifugio borghese, classico, con il soufflè da prenotare con un'ora di anticipo, il filetto all'Ananas e le famiglie con i figli al seguito golose di mozzarella. Nello stesso luogo, oggi, tra una lista d'attesa (sul serio) per l'aperitivo "d'estate" e un occhio alla coscia della vicina, si preferisce dare spazio ai famigli.
La Rai è a un passo. Il bar Vanni, mitologico snodo di promozioni cafonal, vallette svalvolate e autisti annoiati in attesa del padrone di turno, pieno, ma in qualche modo decaduto. Domina Settembrini. Il bar che guarda Casa D'Alema, in Via Avezzana, tra il ristorante Cacio e Pepe e l'edicola di Piazza Martiri di Belfiore, a un tiro di sputo.
Il presidente del Copasir porta a passeggio il Labrador, compra i giornali e non di rado stringe la mano a Ignazio la Russa, il cui appartamento in Via Menotti, tra il gommista, il carrozziere e le troppe macchine di scorta è a soli venti metri in linea d'aria. Un microcosmo stretto e in fervida preghiera di fronte alla trinità di Settembrini (bar, ristorante, libreria bistrot, multinazionale dell'inciucio radical in faccia al Tevere).
MARIO ORFEO PRESENTA IL NUOVO MESSAGGERO A MILANO FOTO TOIATI MARIA TERESA MELI E GIULIANO FERRARAIl triangolo delle Bermude in cui inabissarsi tra un frittino e una bollicina (pretenziosa lavagna old style in cui il vino, qualsiasi vino, è preceduto dalla parola "bollicine" declinata con le varie provenienze, italiana, francese, argentina). L'ubicazione perfetta per un abbraccio trasversale alla luce del sole.
Se ci vai, vuoi farti vedere. La discrezione non è il piatto migliore di Settembrini, ma la tartare di tonno è tanto buona, il popolo assuefatto al peggio, Prati abituata alla confusione tra tv e realtà e la tovaglietta di carta con le frasi di Goethe, perfetta per disegnare le mappe del nuovo dominio tecnocratico televisivo firmato Tarantola-Gubitosi.
Settembrini serve a questo. A leggere la mappa del tesoro residuo di Montecitorio, interpretare (orientare) la politica che verrà, decidere i palinsesti che saranno, le teste che salteranno, i cavalli da azzoppare. Le strategie mediatiche di un mondo dell'informazione in avanzato stato di putrefazione vanno in onda su "Settembrini". Un nuovo reality show in onda dall'alba fino a tarda notte.
SELMA E GIULIANO FERRARACon il Morellino di Scansano nel bicchiere giusto e le barchette di pesce crudo, anche l'Italia sembra più sopportabile. In Via Luigi Settembrini, la domenica mattina, sotto l'occhio del neodirettore del Tg1, li vedi in fila. Giuliano Ferrara, la moglie Selma e l'amico Pigi Battista. Agostino Saccà coperto dal bowindow del suo cappello da baseball. Sceneggiatori e registi (Amelio, Costanzo, Muccino jr.), attori, giornalisti (Maria Teresa Meli, perennemente imbronciata: «Mi si nota di più se inforco l'occhiale, metto il muso, leggo il Corriere distrattamente o sfoggio lo stivale da cavallerizza?»).
CONCITA DE GREGORIOA seguire produttori (Lorenzo Mieli), schegge di Rai Cinema, giudici e avvocati rampanti del vicino Tribunale, strafighe, strafighi, scrittori (Di Fulvio, Franco Di Mare, Ottavio Cappellani che stasera nel bistrot-libreria che scimmiotta Parigi e Montparnasse presenta le sue "Cinquanta sfumature di Minchia"), dirigenti in disgrazia (Comanducci), direttori felici (Mentana), direttori preoccupati (Telese), ex direttori risorti nel riposo (De Gregorio), geni travestiti da direttori incompresi (Freccero), zanzare in trasferta (Cruciani, Parenzo), iceberg alla deriva (Liofreddi), poliziotti in divisa dal vicino commissariato, cantautori (De Gregori) e pezzi di vetro perché ogni tanto, nell'allegra routine del volemose ‘bbene, spartimose i resti e famose vedè, qualche bicchiere scivola.
Giorgio NapolitanoAltro rumore. Intorno, il traffico di Calcutta. Il parcheggio selvaggio. La sfilata di Vù cumprà corretti e poliglotti, quasi una parodia di Virzì, la svendita di pezzi di strada pubblica al primo che passa (per l'irritante passerella del nuovo modello Bmw, cittadini sequestrati nel week-end a entrambi i lati della via e lauto incasso per il Comune di Aledanno di 250 euro in 48 ore).
La sensazione antichissima che a Roma vivano almeno due città. Quella che si sbatte e impreca una volta smarritasi nel budello di macchine in tripla fila, soliti noti e ragazze cin-cin. E quella che permette alla fauna di Via Settembrini di lavorare. L'idea di aprire il trittico in espansione (trema e sta per abdicare anche la vecchia gioielleria di fianco al ristorante) venne a un erede della storia patria del Pci, il proprietario di "Settembrini", Marco Ledda, figlio di Romano, il costituzionalista del partito di Togliatti.
Un romano pragmatico, Ledda, che qualche anno fa, dopo un'esperienza molto cara a Veltroni (quella delle videocassette dell'Unità con i capolavori del cinema, una sua creatura) acquisto a caro prezzo l'intero lotto. Prima il ristorante, poi il bar, infine la libreria. Una certa idea di mondo. Tre modi "di concepire l'esperienza del cibo". La sintesi tra il "magna-magna" e l'approccio new-age. L'antichissimo ibrido della nostra contemporaneità.
De GregoriDa Settembrini un caffè può durare ore. Una lentezza che costringe il malcapitato incerto se prendere il cestino di "delizie", la mozzarella di Battipaglia giunta a Roma con le sue gambe e tornita da foglie di fico o un calice di rosso a estenuanti attese e inutili conciliaboli. «Vorrei un bicchiere di vino per favore», «le mando il sommellier», «non posso avere semplicemente la carta?», «certo, un secondo e arriva subito il sommellier».
Qualche settimana fa, a incoronare definitivamente la Repubblica di Settembrini e le insalate con i filetti di cavallo è arrivato Giorgio Napolitano in persona. Si è seduto con moglie e due amici. Ha stretto mani. Sorriso. Fuori dal locale aspettava Mario Orfeo. Sentinella vigile, piccola vedetta meridionale, uomo di mondo e soldato in costante aratura del marciapiede.
BAR RISTORANTE SETTEMBRINIL'apripista. Il tracciasolco. Sempre sorridente. Apparentemente distratto. Sempre sul pezzo in verità, tra una direzione e l'altra. Attribuirgli la scoperta di Settembrini sarebbe eccessivo. Prima di lui, ci fu il più severo Giuseppe D'Avanzo (ricordato nero su bianco dal bar, «il nostro amico Peppe», nei giorni della scomparsa). «L'amico Peppe» stava sulle sue, sorrideva di rado, si fermava per ore e forse, frequentando il "pensatoio", immaginava un'evoluzione diversa.
Altri sono venuti dopo. Adottati da un'entità che crede di somigliare a Soho, si illude di fluttuare tra Nolita e Chelsea, ma alla fine, è solo Via Settembrini. Pensiero debole. Tagliata squisita. Più moda, comunque, che letteratura. Le domande esistenziali: «Mi si nota di più se faccio "l'apemartini", partecipo all'ultima presentazione di Severgnini o affondo in un supplì al polpo?» sono in linea con un volume di un altro assiduo frequentatore, il vate Baricco. File alla cassa. Oli biologici. Tisane aromatiche. Carte di credito che strisciano al ritmo degli uomini.