Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, a proposito dell’uso della lingua italiana è molto interessante studiarne l’uso che ne viene fatto nei vari “uffici” con i quali abbiamo a che fare. E tanto più che sono loro a condizionare la nostra vita. Io fossi stato un valente scrittore, lo avrei ricavato senz’altro un resoconto mica male da quel che mi dicevano i tre o quattro “uffici” e romani e catanesi con i quali ho avuto a che fare in occasione della necessaria modifica del mio certificato di nascita (a Catania), dov’era scritto erroneamente “Gianpiero” e doveva essere invece “Giampiero”.
Una modifica non di poco conto, ammetterete. Un lavoro complesso, intellettualmente e tecnologicamente complesso. Ci ho messo difatti un anno pieno di telefonate, mail, urla al telefono e così via. Un anno. Ma il pezzo migliore di questa tregenda era il linguaggio di quelli che stavano nei vari uffici con cui ho avuto a che fare in quella cruciale annata. Bastava mi dicessero “Guardi, mi vergogno, ma quella ‘n’ non è ancora divenuta una ‘m’. Non ci siamo ancora riusciti. Me ne vergogno”, e invece farfugliavano delle porcate in burocratese, altro che le invenzioni linguistiche di un Carlo Emilio Gadda.
Mi succede adesso di sostenere un’importante e delicata spesa sanitaria. Pago ovviamente alla consegna e siccome da 40 e passa anni ogni fine mese pago alla Casagit (l’ente mutualistico dei giornalisti) i miei non propriamente esigui contributi, il 24 febbraio alla mattina consegno alla portineria della Casagit quella mia fattura di svariate migliaia di euro.
Siccome se uno non bada a sé stesso non ci bada nessuno, dopo un mese e passa telefono alla Casagit a chiedere a che punto è la pratica. E qui comincia il surreale del linguaggio da “uffici”, del linguaggio burocratese con cui cercano disperatamente di occultare il fatto semplicissimo che ti rimborseranno il più tardi possibile e non come Dio comanda.
Mi dicono che devono “digitalizzare” la fattura, e lo dicono con l’aria di gente che debba edificare dalle fondamenta la Torre Eiffel, insomma che la cosa richiede tempo, eccome se richiede tempo. Passa un altro mese e telefono di nuovo. La voce questa volta di una donna (la prima volta era un uomo) mi dice che “la pratica è in lavorazione”, e avrete capito benissimo che la “pratica” consiste nell’emettere un bonifico, il che richiede fra i tre e i quattro minuti in tutto. Una “lavorazione” davvero complessa. Vado nel sito internet della Casagit dove non figura alcuna “pratica in lavorazione” che mi riguardi.
Ritelefono e comincio a urlare. Mi dicono che il sito non funziona bene e che comunque la mia “pratica” è giunta a compimento e che verrò pagato fra un paio di giorni. Passano i due giorni, nemmeno l’ombra del bonifico. Nel frattempo siamo già entrati abbondantemente nel terzo mese di attesa. Ritelefono, riurlo, mi danno l’indirizzo del gran capo della Casagit, al quale mando una cortese mail da collega a collega dicendogli che se fossi in loro mi vergognerei del linguaggio cialtronesco di cui si servono pur di pagare il più tardi possibile. Dato che si tratta di un giornalista, sono sicuro di trovarlo sensibile alle questioni del linguaggio usato.
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Giampiero Mughini