ZEFFIRELLI MEMORIES - “IO SONO OMOSESSUALE, NON GAY. PER ME LA STORIA DELLA MUSICA SI DIVIDE IN A.C. E D.C: AVANTI E DOPO CALLAS. GRILLO? “NON MERITA DI ESSERE PENSATO”

Da Visconti (“tormentato Don Giovanni e aristocratico dal sesso facile”) a Marilyn: il maestro boccia il mondo dei Nanni Moretti (“il nuovo cinema è la fiera dei presuntuosi”) e Grillo (“Meglio Guglielmo Giannini”) – “Renzi? Un tipo sveglio” – “Il Papa non sa fare battute ma la sua anima è pulita”…

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1 - SONO OMOSESSUALE, NON GAY
Da "l'Espresso"

L'omosessualità non ha mai ostacolato Zeffirelli nei rapporti con la Chiesa. «Credo che il peccato della carne sia tale se compiuto con un uomo o con una donna». Disprezza i Gay Pride, «esibizioni veramente oscene, con tutta quella turba sculettante. La parola gay stessa è frutto della cultura puritana, una maniera stupida di chiamare gli omosessuali, per indicarli come fossero dei pazzerelli».

Essere omosessuale «è un impegno molto serio con noi stessi e con la società. Una tradizione antica e spesso di alto livello intellettuale, pensi solo al Rinascimento. Nella cultura greca l'esercito portava gran rispetto a due guerrieri che fossero amici e amanti, perché in battaglia non difendevano solo la patria, ma reciprocamente anche se stessi, offrendo una raddoppiata forza contro il nemico».

FRANCO ZEFFIRELLI FOTO ALESSANDRO PENSO PER LESPRESSOFRANCO ZEFFIRELLI FOTO ALESSANDRO PENSO PER LESPRESSO

2 - IL BELLO, IL BRUTTO E ZEFF - COLLOQUIO CON FRANCO ZEFFIRELLI
Riccardo Lenzi per "L'Espresso"

Chi volesse conoscere davvero il regista Franco Zeffirelli, celebrato in questi giorni a Firenze con l'istituzione dell'omonimo archivio e del Centro internazionale per le arti dello spettacolo che saranno custoditi nella Casa museo in Palazzo Carnielo (vedi box a pagina 86), dovrebbe passeggiare nel giardino della sua dimora sulla via Appia.

Disposto in maniera all'apparenza casuale, in realtà simmetricamente attraversato da sentimenti e ricordi, nella divisione delle zone di verde, creata con siepi di bosso, e nell'introduzione di fontane e pergolati, la composizione riprende i temi del giardino rinascimentale e tra percorsi lastricati in porfido sono collocate, insieme alle statue antiche, la collezione di calle in memoria di Maria Callas, un cimitero per gli amici a quattro zampe, quindi serre e specchi d'acqua, fino ad arrivare alla piscina, decorata con calchi su base in ferro battuto, gli stessi utilizzati nella sua celeberrima scenografia della "Traviata".

CASA DI FRANCO ZEFFIRELLI FOTO ALESSANDRO PENSO PER LESPRESSOCASA DI FRANCO ZEFFIRELLI FOTO ALESSANDRO PENSO PER LESPRESSO

Perché la musica ha segnato il suo destino fin dalla nascita: «I figli illegittimi come ero considerato negli anni Venti avevano per iniziale del cognome una lettera secondo l'ordine alfabetico», ricorda il 91enne Zeffirelli a "l'Espresso": «Quando venne il mio turno toccava alla zeta, e giacché mia madre amava l'aria "Zeffiretti lusinghieri", dall'"Idomeneo" di Mozart, scelse proprio quello, poi storpiato da un impiegato dell'anagrafe».

Come i sentieri e i viali di quel giardino, ripercorriamo insieme la memoria dei personaggi che hanno attraversato la sua vita. I maestri della giovinezza fiorentina incontrati in quel cenacolo che era il convento di San Marco: il priore padre Gabriele Coiro, cupo e intenso quasi come un moderno Savonarola, e un professore di Diritto romano che gli fece da istitutore nel collegio, gli consigliò durante l'occupazione tedesca di raggiungere i partigiani e poi nel dopoguerra sarebbe diventato sindaco della città: Giorgio La Pira.

FRANCO ZEFFIRELLI FOTO ALESSANDRO PENSO PER LESPRESSOFRANCO ZEFFIRELLI FOTO ALESSANDRO PENSO PER LESPRESSO

«Firenze aveva resistito ai peggiori eccessi della modernizzazione e la Chiesa faceva da contrappeso ai tentativi del governo fascista di guidare e controllare le nostre menti», rammenta ancora Zeffirelli. E gli studi di architettura, scenografia e pittura all'Accademia di belle arti e all'università. E un'iniziazione musicale impreziosita dall'esperienza senese. «L'Accademia chigiana fu fondata dal conte Guido Chigi Saracini: un uomo ignorante ma istintivo, che si sentiva investito da una missione».

FRANCO ZEFFIRELLIFRANCO ZEFFIRELLI

A guerra finita, sempre a Firenze, al Teatro della Pergola, dove era assistente scenografo, comparve Luchino Visconti. Zeffirelli diventò suo aiuto regista e collaborò, fra l'altro, alla produzione di capolavori cinematografici come "La terra trema" e "Senso": «Per me Luchino era il modello di tutto quel che conta davvero, un uomo complesso, autoritario e umile, egoista e generoso, folle e saggio.

Un tormentato Don Giovanni e un aristocratico dal sesso facile». Convisse con Visconti nella sua villa in via Salaria a Roma. Il rapporto tra i due si deteriorò quando, dopo un furto in casa, Zeffirelli fu portato in commissariato insieme alla servitù. Chiarita la sua innocenza ma offeso nell'animo, ebbe modo di riflettere: in quegli anni sotto la protezione di Visconti aveva avuto occasioni di lavoro incredibili, conoscenze importanti. Era però giunto il momento di emanciparsi, anche se non fu facile: il "conte rosso" era l'intellettuale più ammirato d'Italia, incensato persino da Togliatti. «Comunista lui?», sorride Zeffirelli: «Ma se licenziò su due piedi un cameriere perché si era dimenticato di pettinare i gatti persiani. Anche mentre si provava in teatro chiamava un domestico a lisciarli. Gridava: se non mi fate fare quello che l'istinto mi ispira, me ne vado su due piedi!».

franco zeffirellifranco zeffirelli

Ad Anna Magnani deve invece il suo esordio cinematografico nell'estemporanea parte dell'attore, nel film "L'onorevole Angelina". «Mi trovai su quel set nell'estate del 1947 perché mio cugino mi incaricò di lavorare per la pubblicità di quella produzione», ricorda Zeffirelli. «In quel momento la grande attrice era infuriata con il regista Luigi Zampa perché aveva affidato il ruolo del giovane protagonista a un raccomandato».

«Guardati in giro, il mondo è pieno di facce nuove», disse la Magnani a Zampa, «non è questa la regola del vostro cinema del neorealismo, per cui chiunque può fare l'attore?». Mentre gridava il suo sguardo si posò su Zeffirelli. «Quello stronzetto là, vedi se sa spiccicare due parole» e si rifugiò in camerino. Zeffirelli ricorda ancora: «Dopo il provino, Zampa sembrò deluso». Tornata la Magnani, sentenziò che quel ragazzo come look non era male, ma non era naturale: sapeva infatti recitare. Al che la Magnani s'adirò di nuovo: «Verismo del cavolo. Tanto alla fine il cinema lo facciamo noi attori», e riuscì a farlo assumere.

MARIA CALLASMARIA CALLAS

Ma la donna della sua vita, dopo la madre, fu Maria Callas, che diresse a partire dagli anni Cinquanta. «Per me la storia della musica si divide in a.C. e d.C: avanti e dopo di lei. La presenza scenica e le qualità musicali erano inscindibili, componeva e recitava quello che cantava. Una donna che poteva essere una ragazzina, una compagna di scuola e una virago. Il sesso se lo immaginava: aveva delle voglie non confessate, si innamorava spesso dei pederasti (usa proprio questa parola Zeffirelli, ndr.), li sentiva vicini. Gli intellettuali la sostenevano soffiando sul fuoco della rivalità con la Tebaldi. Maria rappresentava il nuovo, mentre la Tebaldi era la tradizione acquisita e accettata».

Secondo Zeffirelli, Maria morì di crepacuore. «Quando vidi il suo corpo immoto pensai che fosse appartenuto a due persone distinte: alla donna che voleva amare ed essere amata e alla diva solitaria, una vestale sacrificata sull'altare dell'arte».

Un'altra "Divina" fu Joan Sutherland: «Cantante suprema come la Callas. Dire di preferire l'una all'altra è come dire che ti piace il blu invece del rosso. Fu Richard Bonynge, il marito direttore d'orchestra, a inventarla musicalmente e a esercitarsi con quello straordinario strumento. Joan portava con molta fatica le sue responsabilità, forse anche perché aveva un marito che con lei non aveva alcun rapporto carnale».

GRILLO A ROMAGRILLO A ROMA

Regista d'opera ormai leggendario (tanto per dare una cifra approssimativa, circa 1.600 recite sono state tratte da suoi spettacoli al Metropolitan di New York), dal dopoguerra ha incontrato tutti i grandi interpreti della musica classica. A incominciare da Arturo Toscanini: «Una volta, appena tornato a Milano dall'America, entrò in sala alla Scala parlando ad alta voce. Non badò minimamente a chi da parecchie ore stava lavorando in teatro a "L'elisir d'amore". Ero stanco per aver passato una notte intera in sartoria: ordinai quindi ai tecnici di abbassare le luci in sala e riprendere le prove. Lui chiese il perché, poiché nell'opera di Donizetti non ci sono scene buie. Io scoppiai: "Mi dispiace, Maestro, di doverla incontrare in queste circostanze, da anni sognavo questo momento... ma lei ora viene a romperci le scatole mentre lavoriamo e non lo possiamo permettere"».

LUCHINO VISCONTILUCHINO VISCONTI

Il direttore d'orchestra Tullio Serafin. «Il vero, tipico, musicista di qualità. Ma anche un uomo divertente e un gran puttaniere. Fu per la Callas un padre vigile e severo. E senza andarci a letto. Il "Vangelo secondo Serafin" si rifaceva alle parole con cui Monteverdi consacrò la nuova arte dell'opera: il "recitar cantando". "Prima la parola, poi la musica"».

Herbert von Karajan: «Era un personaggio molto controverso, che faceva cose che soltanto lui si poteva permettere». Pare che Bernstein l'abbia definito il nazista più simpatico che avesse conosciuto. «Non rammento la simpatia», precisa ironicamente Zeffirelli: «Con me diventava un agnellino, forse perché comprendeva di trovarsi a contatto con un "genio improbabile".

Condividevamo un terreno comune: la ricerca e il senso della bellezza. Lui era felice di essere odiato, ma se uno non lo amava, si disperava. La nostra"Bohème" di Puccini fu un atto d'amore: affondammo il nostro coltello nelle carni vive della gioventù dei personaggi. In definitiva lui e Kleiber fecero rivalutare Puccini dai critici che prima mostravano la bocca storta». Meglio Puccini di Wagner, per Zeffirelli: «Il tedesco è un grande musicista, ma mi è poco simpatico. Con Puccini e Verdi mi piacerebbe uscire, andare a prendere un caffè. Con Wagner no».

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Quando gli si chiede di Carlos Kleiber, Zeffirelli giunge le mani come in preghiera: «Un dio. Fin dalle prove, al nostro primo incontro, per l'"Otello" che inaugurò la Scala nel 1976, mi accorsi dell'irresistibile, contagiosa energia creativa che emanava. Carlos era contraddittorio, fra l'arcano, il sublime e il volgare, nel senso del pratico. Molto legato alla moglie, ma aveva anche tante "distrazioni" con le quali era spesso ospite della mia villa di Positano. Per lui la musica era come l'aria, entrava e usciva. Anche quando mangiava, qualcosa sembrava suonargli dentro».

Fra i primi ospiti della sua villa di Positano ci fu Leonard Bernstein, che già aveva frequentato negli anni Cinquanta alla Scala. A quei tempi Zeffirelli stava lavorando a "Fratello Sole, Sorella Luna", il film su San Francesco dove sarebbe stata molto importante la colonna sonora. «Coinvolsi subito Lenny (Bernstein), facendogli ascoltare una raccolta di musiche francescane, il "Laudario di Cortona".

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Bernstein se ne innamorò e mi consigliò di invitare Leonard Cohen a creare una colonna sonora riproponendo le melodie delle laudi. Successivamente feci conoscere l'operazione a un delizioso artista folk, Donovan, che compose una splendida colonna sonora. Ne parlai anche con i Beatles, ai quali piacque la storia di san Francesco, quella di un giovane che si autoesclude dalla società e dalle sue ricchezze terrene per lodare e cantare Dio attraverso le sue creature. Gli feci conoscere il Laudario, lo cantammo insieme e ne furono entusiasti. Fu per loro costante fonte d'ispirazione».

Con Riccardo Muti, tramite Luciano Pavarotti, andò meno bene. «Li conobbi per un "Don Carlo" che avrebbe inaugurato la stagione scaligera del 1992. Percepivo che Luciano aveva la morte addosso: vi erano delle zone dello spirito umano che lui non era capace di decifrare. In genere avverto molta angoscia in un tenore in carriera. Quella che non sento nel soprano. Il soprano ha una voce che si apre al Paradiso in maniera naturale.

Pavarotti in quell'occasione fu spesso umiliato da Muti. Nel mondo dell'opera s'intrecciano molteplici energie individuali che debbono trovare un'armonia comune, senza la quale è difficile che si possa arrivare a risultati positivi. Le esperienze verso le quali ho grata memoria sono state quelle con giganti come la Callas, Serafin, Kleiber, Bernstein e Karajan. Muti è un artista molto diverso da questi, anche se non è infrequente imbattersi in casi di arroganza e vanità nel mondo della musica. Muti ha in testa un solo traguardo, che assorbe tutta la sua creatività: affermare a ogni costo il proprio genio, che ampiamente gli va riconosciuto, ma che purtroppo non vuole accettare critiche. Anche per quanto riguarda Kleiber, Muti ha sempre raccontato di essere suo amico, ma quando alla Scala decideva lui, per gelosia ne limitò le apparizioni».

MATTEO RENZIMATTEO RENZI

A partire dal 1960 nei teatri e nei cinema, inizialmente nel nome di Shakespeare (basterebbe pensare al "Romeo e Giulietta" dell'Old Vic a Londra e a film come "La bisbetica domata", successi che gli valsero il soprannome di "Scespirelli" da parte di Ennio Flaiano), Zeffirelli divenne un punto di riferimento nel mondo anglosassone. Quando il grande Laurence Olivier s'interessò all'opera di Eduardo non trovò di meglio che approfittare della sua amicizia per la mediazione. Intendeva portare in scena "Sabato, domenica e lunedì" e successivamente volle fare altrettanto con "Filumena Marturano".

«Ci furono due incontri fra Larry (Olivier, ndr.) ed Eduardo, uno a Firenze a casa mia, il secondo durante le prove londinesi di "Sabato, domenica e lunedì" con la mia regia», rammenta Zeffirelli. «Olivier tentò di tagliare una scena ed Eduardo, avvertito da qualche attore, mi intimò: "Dì a quel tuo nuovo padrone che la commedia la leggiamo in una edizione stampata, non è un copione dove si aggiunge e taglia". Olivier acconsentì, ma poi durante lo spettacolo fece quello che gli parve».

In quegli anni i più grandi attori d'oltremanica lavorarono per Zeffirelli. Alec Guinnes: «Il teatro inglese per eccellenza, con i suoi tic, ad esempio le inimicizie verso i colleghi». John Gielgud: «Un bravo attore, una bella signora». Maggie Smith: «Attrice straordinaria, l'Inghilterra fatta persona. Nel mio film "Un tè con Mussolini", raccoglie in sé l'anima della sua terra e la respinge al tempo stesso. Ma se qualcun altro osava parlare male della sua patria, prorompeva: devo farlo io, voi non ne avete il diritto». Albert Finney: «Eterno ragazzaccio prepotente e ricattatore del cuore delle donne».

E Richard Burton. La voce più bella del teatro britannico e non solo, come ricordano gli ammiratori del documentario di Zeffirelli del 1966 sull'alluvione di Firenze. L'eterna relazione con Liz Taylor forse ne limitò le qualità d'artista? «Temevo questo pericolo per il film "La bisbetica domata". Aspettavo con ansia la sua prova e, sorprendentemente, accadde che vinse il confronto con la Taylor. Lei fu brava, ma ricorse ad alcuni artifizi professionali. In quegli anni Burton aveva trasgredito, con il bere, la disciplina. Lei gli dette una regola, pur con i suoi parametri», ricorda Zeffirelli.

MARILYN MONROEMARILYN MONROE

Zeffirelli in quegli anni era spesso a New York per montare e pubblicizzare i suoi film. «Andai a una festa di Paula e Lee Strasberg all'Actors Studio e v'incontrai Marilyn Monroe. Lee mi parlò della sua idea di farla debuttare in teatro nelle "Tre sorelle" di Cechov. Ero perplesso, ma Lee insistette che avessi un incontro privato con lei. Malgrado quel suo personaggio professionale di sventatella, mi parve una donna tutt'altro che stupida. La mia idea era che anziché pensare di cimentarsi come una delle sorelle, si sarebbe divertita di più nella parte della tremenda cognata Natascia, che portava un'aria nuova nella casa di quelle tristissime zittelle».

Tanti grandi nomi del passato e tanti giudizi senza peli sulla lingua. Ma cosa pensa Zeffirelli di coloro che lo circondano oggi? Presto detto. Alexander Pereira, nuovo sovrintendente scaligero: «Credo che non mi piacerà. Non ho accettato di fare un tentativo di solidarietà a mezzo stampa. Certo è un buon professionista. Ma arrivando alla Scala si dovrebbe inginocchiare: non ha una cultura consapevole della sua storia». Il conduttore d'orchestra Tony Pappano: «È sempre un'avventura aprire un capitolo con un cantante. Pappano, come altri suoi colleghi, pensa che il perno di ogni espressione musicale sia il direttore. Lo si può anche sostenere ma bisogna essere Bernstein, Karajan o Serafin».

I nuovi registi italiani: «Il mondo dei Nanni Moretti non mi interessa. Spesso questo nuovo cinema mi pare la fiera dei presuntuosi». Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi: «Un ragazzo molto sveglio. Ha intuito il tracollo dei comunisti. Ma le ultime elezioni locali li hanno rilanciati e modificheranno la sua strategia politica». Beppe Grillo: «Non merita di essere pensato. C'era una protesta passiva e molti giovani si sono lasciati strumentalizzare da lui. Il suo movimento mi ricorda vagamente il Fronte dell'Uomo Qualunque fondato a Roma nel 1944 da Guglielmo Giannini. Ma Giannini era un personaggio più interessante».

PAPA FRANCESCO JORGE BERGOGLIOPAPA FRANCESCO JORGE BERGOGLIO

E il tema per lui fondamentale del rapporto con la Chiesa e la fede. «La Chiesa ha la mia disponibilità a un impegno al suo servizio. A sua volta Paolo VI, nel 1977, dopo aver visto il mio "Gesù di Nazareth", mi chiese che cosa la Chiesa avrebbe potuto fare per me. Gli risposi: vorrei che quest'opera arrivasse anche in Russia. Lui mi disse profeticamente: "Abbia fede, presto sul Cremlino sventoleranno le bandiere della Madonna al posto di quelle rosse". Quando, nel 1991, vidi in tv le bandiere rosse sovietiche ammainate dalle torri del Cremlino, e il bianco, l'azzurro e il rosso, i colori della precedente bandiera russa, sventolare sopra le cupole di Mosca, pensai che quei colori erano quelli dell'immacolata concezione: la vergine bianca e azzurra che schiaccia il rosso del demonio».

E cosa pensa di papa Francesco? «Carino, innocente, mi piace come va incontro alla gente, facendo delle battute che vorrebbero essere spiritose e che non lo sono. Certi papi non sono adatti a fare dell'umorismo, come lo era Giovanni XXIII. Però la sua anima è pulita».

Finale. Allegro ma non troppo: «Quando sono depresso passo da Firenze a rimirare la cupola del Brunelleschi. Ecco: se c'è un sogno che non ho realizzato è quello di un film sulla sua costruzione, che narrasse di quello che accadeva in una città a marmi bianchi e neri, con il Ghiberti che creava la Porta del Paradiso, il campanile di Giotto, le Cappelle medicee». Ovvero il film "I fiorentini", il cui progetto tuttora giace nel cassetto. Ma mai porre un limite alla Provvidenza.

 

 

 

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