LA "NEBBIA NEL CERVELLO" CAUSATA DAL LONG COVID E' SIMILE ALL'ALZHEIMER O AL PARKINSON - GLI EFFETTI DEL COVID SONO SIMILI AGLI STADI INIZIALI DELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE - "SE QUESTO SARA' CONFERMATO IN STUDI FUTURI, I FARMACI SVILUPPATI PER COMBATTERE L'ALZHEIMER E IL PARKINSON POTREBBE ESSERE ADATTI PER TRATTARE I DEBILITANTI SINTOMI DEL LONG COVID..."
Roberto Cadua per lastampa.it
Dopo 10 settimane consecutive di calo della curva dei contagi, in questi ultimi sette giorni si è notata una battuta di arresto di questa discesa ed un accenno ad un lieve aumento dei contagi (che a Milano, pur con numeri ancora contenuti, sono quadruplicati), anche se al momento non sembra ci sia un effetto sui ricoveri in area medica ed in terapia intensiva che continuano a diminuire.
Questa situazione epidemiologica andrà attentamente monitorata nelle prossime settimane, in relazione anche all’annunciato ulteriore allentamento a breve delle misure di prevenzione ed all’eventuale impatto che questo potrà determinare sui contagi. In particolare, bisognerà attentamente considerare la circolazione delle nuove sotto varianti Omicron 4 e soprattutto Omicron 5, già presenti in altri paesi, che hanno mostrato una maggiore capacità di trasmissione rispetto alle precedenti varianti. Attualmente la presenza di Omicron 5 in Italia, secondo i dati estrapolati dalle sequenze presenti nei data base, è aumentata da inizio maggio ad oggi, passando da 0,4% a 13%.
Long Covid
La condizione chiamata "nebbia nel cervello” è emersa come uno dei sintomi più debilitanti del Long Covid e colpisce miglia di persone globalmente, con impatto sulla capacità di lavoro e nella vita quotidiana. Ora un gruppo di scienziati australiani dell'Università La Trobe di Melbourne si avvicinano a svelare il mistero della persistente condizione che può fa scattare perdita di memoria, confusione, vertigini e mal di testa, con difficoltà a ricordare parole di uso comune.
I risultati dello studio, appena pubblicati su Nature Communications, suggeriscono che vi possano essere precisi paralleli fra gli effetti del Covid-19 sul cervello e i primi stadi di malattie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson. Come parte dello studio, i ricercatori guidati dal professor Nick Reynolds, dell'Istituto di Scienza Molecolare dell'università stessa, hanno usato algoritmi informatici per identificare minuscoli frammenti di proteine, detti peptidi, nel virus SARS-CoV-2.
Hanno poi studiato i peptidi in laboratorio, osservando che avevano formato aggregazioni, rispecchianti le placche amiloidi che si trovano nel cervello nelle prime fasi di malattie neurodegenerative. «Tali placche amiloidi sono molto tossiche per le cellule cerebrali e noi ipotizziamo che gli aggregati di proteine di SARS-CoV-2 possano far scattare sintomi neurologici nel Covic-19 descritti communente come annebbiamento cerebrale», scrive il professor Reynolds. «Se questo sarà confermato in studi futuri, lo studioso ritiene che farmaci sviluppati per combattere l'Alzheimer e il Parkinson potrebbero essere adattate per trattare i debilitanti sintomi neurologici del Long Covid. Se l'annebbiamento cerebrale è causato da queste placche amiloidi, allora possiamo contare su 30 anni ricerca farmacologica per le malattie neurodegenerative che può ora essere riesaminata nel contesto del Covid-19», aggiunge.
Varianti
La presenza di nuove varianti potrebbe condizionare la possibile crescita dei contagi, così come è avvenuto in altri paesi, ad esempio il Portogallo, dove questa variante è attualmente al 38%. L’esperienza di quanto avvenuto in passato a seguito della comparsa di nuove varianti deve indurre alla prudenza, nonostante l’elevato numero di vaccinati molti dei quali hanno effettuato la terza dose, dal momento che è ben nota la capacità di queste nuove varianti (Omicron 4 e 5) di eludere la protezione post-vaccino e post-infezione. A questo proposito, si segnala che nei paesi dove stanno circolando, sono responsabili di re-infezioni in chi aveva già sofferto di Omicron 1 e 2.
La previsione che la circolazione di queste varianti avrà un possibile impatto a partire dal prossimo autunno dovrà essere attentamente analizzata attraverso il monitoraggio della situazione epidemiologica delle prossime settimane, tenendo conto anche che, in estate si vive di più all’aria aperta, riducendo così il rischio di contagio, ma al tempo stesso sono maggiori gli spostamenti sia in Italia che all’estero e per questo maggiori sono le occasioni di esposizione al virus.
Infezioni da Omicron
È ben nota la capacità di Omicron di poter determinare infezioni intercorrenti nei soggetti vaccinati, così come evidenziato da uno studio (Quandt J. e altri) che segnala questo tipo di infezione da Omicron 1, in soggetti immunizzati con il vaccino Pfizer. In questi casi l’infezione intercorrente è in grado di stimolare una forte risposta anticorpale neutralizzante contro Omicron 1 e 2, così come nei confronti di tutte le precedenti varianti di preoccupazione (VOC), ma non contro Omicron 4 e Omicron 5.
L’infezione induce un forte stimolo al sistema immunitario che espande i linfociti B della memoria verso specifiche strutture antigeniche (epitopi), comuni a diverse varianti, anche se non induce linfociti B specifici contro Omicron 1. Sulla base di questi risultati, la conclusione a cui giungono gli autori dell’articolo è che i linfociti B della memoria, indotti dalla vaccinazione presentano una sufficiente plasticità per essere rimodellati dall’esposizione verso le glicoproteine spike di SARS-CoV-2, che presentano epitopi condivisi, così da neutralizzare efficacemente la maggior parte delle varianti che eludono l’immunità precedentemente stabilita.
Caratteristiche virologiche
Uno studio condotto in Giappone, presente sulle piattaforme ma ancora non pubblicato (Kimura I. e altri), descrive le caratteristiche virologiche delle sotto varianti correlate ad Omicron 2, che acquisiscono la mutazione nel residuo L452 della proteina spike, come, ad esempio Omicron 4 e Omicron 5. Le varianti che presentano questa mutazione hanno una capacità di riproduzione maggiore di Omicron 2 (quindi sono maggiormente trasmissibili) e l’immunità indotta dalle infezioni di Omicron 1 e Omicron 2 è meno protettiva verso Omicron 4 e Omicron 5, se valutata impiegando un test di neutralizzazione.
Diminuzione cervello pazienti Covid 3
Inoltre, in esperimenti condotti utilizzando cellule epiteliali alveolari umane ottenute dal polmone, si è visto che Omicron 4 e Omicron 5 hanno una maggiore capacità di formare sincizi rispetto alle altre varianti, il che potrebbe suggerire una loro maggiore patogenicità a livello polmonare ed inoltre queste varianti causano un’infezione più grave nei criceti. Da questi dati si può concludere che sussiste un rischio potenziale per la salute globale legato alle varianti di Omicron che presentano la mutazione L452, come ad esempio Omicron 4 e Omicron 5, il che può tradursi in una maggiore diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2.
Cellule T
Un interessante articolo (Huseby E.S. e altri) ha valutato la risposta delle cellule T nei confronti di un’infezione causata da patogeni diversi. Questa ricerca anche se non tratta espressamente dell’infezione da SARS-CoV-2, è comunque di interesse, perché esamina la risposta T linfocitaria che, come è noto, riveste una grande importanza nell’indurre la protezione nei confronti di COVID-19, sia post vaccino che nei soggetti guariti.
Dall’analisi delle conoscenze oggi disponibili, risulta che i principi fondamentali dello sviluppo e della funzione dei linfociti T, che intervengono tra l’altro nei meccanismi di difesa contro i patogeni, seguono due principi della fisica: la legge di Weber-Fetcher e la legge di Wilder e per questo possono essere in qualche modo previste ed eventualmente influenzate.
Richiamo
Uno studio condotto su base nazionale in Spagna (Monge S. e altri) tra gennaio e febbraio 2022, ha arruolato oltre tre milioni di soggetti ed ha verificato l’efficacia del richiamo con il vaccino a mRNA contro l’infezione da variante Omicron 1 di SARS-CoV-2. In particolare, l’efficacia della vaccinazione a distanza di 7-34 giorni dopo la somministrazione del richiamo era pari a 58,6%, se la vaccinazione primaria era stata effettuata con Astra-Zeneca, 55,3%, se effettuata con il vaccino Moderna e 49,7% con il vaccino Pfizer. Inoltre, l’efficacia era pari a 43,6%, se il richiamo era effettuato tra il giorno 151 e 180 ed a 52,2% se somministrato dopo 180 giorni dal completamento del ciclo vaccinale primario. Questi risultati indicano una moderata efficacia del richiamo con il vaccino a mRNA nel prevenire l’infezione da variante Omicron a distanza di un mese dalla somministrazione ed altresì confermano che questo approccio è utile nel limitare gli effetti di COVID-19, in un momento epidemiologico in cui a prevalere è la variante Omicron.
Anticorpi
Uno studio (McCarthy K.R.) ha identificato le caratteristiche degli anticorpi che possono avere un’ampia capacità protettiva nei confronti di SARS-CoV-2. Questi anticorpi ampiamente protettivi costituiscono la base del miglioramento dei vaccini e possono anche essere direttamente utilizzati nel trattamento e nella prevenzione della malattia COVID-19.
In questo articolo si ricordano le nuove tecnologie che sono in grado di identificare migliaia di anticorpi e tra questi rapidamente selezionare quelli più potenti che possono essere utilizzati per l’allestimento di nuovi vaccini ed impiegati in terapia. Si segnala una comunicazione dell’azienda Moderna relativa ad un candidato vaccino bivalente, che contiene sia lo spike originale del virus ancestrale di Wuhan che quello di Omicron.
I dati indicano che, se somministrato come richiamo in chi ha completato il ciclo primario, determina una buona risposta anticorpale neutralizzante contro la variante Omicron, che si evidenzia un mese dopo la somministrazione. Secondo questo comunicato, il candidato vaccino bivalente, che tra l’altro presenta una buona tollerabilità, potrebbe conferire una più durevole protezione nei confronti delle varianti di preoccupazione (VOC) di SARS-CoV-2 e quindi essere un’utile opzione per il richiamo vaccinale da effettuarsi nell’autunno 2022.
Bambini
Una serie di studi hanno riguardato la vaccinazione anti-COVID-19 nei bambini, tra cui una recente ricerca condotta nel Regno Unito (Grace Li e altri), che ha valutato la sicurezza e l’efficacia del vaccino COVID-19 in una popolazione pediatrica. La popolazione in studio era rappresentata da bambini sani tra i 6 e gli 11 anni ed adolescenti di età compresa tra i 12 e i 17 anni di età, tutti sottoposti a vaccinazione con vaccino Astra-Zeneca comparati ad un gruppo che aveva ricevuto un vaccino di controllo. La vaccinazione con Astra-Zeneca era in grado di stimolare una risposta immune simile a quella osservata negli adulti e questa risposta era migliore se l’intervallo tra la prima e la seconda dose era più lungo.
Inoltre, già la prima dose del vaccino era in grado di stimolare una rilevante risposta cellulo-mediata nei confronti dello spike. Il vaccino in questa popolazione era ben tollerato, anche se va riconosciuto che lo studio non aveva la potenza statistica per escludere l’insorgenza di rari eventi, come trombocitopenia e miocardite.
A questo articolo è seguita una interessante riflessione che si è focalizzata sull’accesso globale dei bambini ai vaccini COVID-19 (Patel M. e altri) ed ha altresì indicato in maniera critica le varie tappe della vaccinazione in età pediatrica attraverso i principali recenti studi pubblicati su questo argomento ed i risultati (positivi) che da questi sono emersi.
Vaccinazione pediatrica
Sempre nell’ambito della vaccinazione in età pediatrica, è stato pubblicato uno studio utilizzando il vaccino Moderna in una popolazione di bambini tra i 6 e gli 11 anni (Creech C. B. e altri). La risposta sierologica rappresentata dagli anticorpi neutralizzanti al giorno 57, in questa fascia di età, è stata pari a 99,1%, valore non dissimile a quanto osservato negli adulti tra i 18 e i 25 anni (99%). Inoltre, è importante sottolineare che il vaccino risultava essere sicuro e non era riportato, dopo una media di 51 giorni di osservazione dopo la seconda dose, alcun decesso e/o evento avverso grave.
Sicurezza
Per quanto attiene la sicurezza della vaccinazione in adolescenti ed in giovani adulti, si ricorda il documento dei Centers of Diseases Control, aggiornato ai primi di giugno 2022, nel quale si menzionano i rari casi di miocardite e pericardite avvenuti in giovani adulti maschi di età pari o superiori a 16 anni, entro 7 giorni dalla seconda dose di un vaccino a mRNA e anche dopo il vaccino Johnson & Johnson. Dopo aver attentamente valutato questo aspetto, i CDC e l’Advisory Commitee of Immunization Practice (ACIP) statunitensi hanno stabilito che i benefici, in termine di prevenzione di casi di COVID-19 e dei suoi esiti gravi, sono superiori ai rischi di miocarditi e pericarditi post-vaccino e quindi entrambe queste istituzioni continuano a raccomandare la vaccinazione anti COVID-19 per tutti i soggetti con età superiore a 5 anni.
Terapie
Uno studio clinico MOVe-OUT (Johnson M.G. e altri) ha valutato l’efficacia di molnupinavir, farmaco antivirale anti SARS-CoV-2, nei confronti del placebo. Sono stati studiati 1433 adulti non ospedalizzati affetti da forme leggere o moderate di COVID-19 che avevano ricevuto molnupinavir per cinque giorni. I soggetti trattati hanno presentato miglioramenti clinici già dal terzo giorno di terapia ed hanno necessitato, in misura minore, di interventi di tipo respiratorio e, quando ospedalizzati, sono stati dimessi in media tre giorni prima di quanti avevano ricevuto il placebo. Inoltre, alcuni parametri di laboratorio si sono normalizzati prima.
I risultati di questo studio dimostrano una serie di benefici clinici legati all’assunzione di molnupinavir, che sono diversi rispetto alla riduzione dell’ospedalizzazione ed all’evento morte segnalati in una precedente nota. Nel corso di questi due anni di pandemia sono emersi in tutti i paesi del mondo rilevanti criticità rappresentate dall’interruzione che hanno subito alcune procedure erogate nell’ambito dei servizi sanitari e dall’allocazione delle risorse economiche verso la gestione della pandemia COVID-19.
Per questo motivo, molte persone affette da patologie che non erano COVID-19 hanno lamentato una diminuzione della possibilità di accesso ad alcuni servizi sanitari. Nel Regno Unito ad esempio il National Health System (NHS) ha registrato 31 milioni di visite ambulatoriali in meno, tra aprile 2020 e febbraio 2022 rispetto ai due anni precedenti. A titolo esemplificativo, viene segnalato che molte persone affette da diabete e quindi a maggior rischio di esiti gravi per COVID-19, hanno visto ridursi in modo significativo la possibilità di accesso ai servizi di assistenza routinari.
Diabete
Un’indagine che ha coinvolto 47 paesi del mondo, ha rilevato che durante la pandemia COVID-19 il diabete è stata la patologia che ha maggiormente risentito della riduzione delle risorse sanitarie, il che si è tradotto in un aumento di 11% dei decessi per cause diverse da COVID-19 nel 2021.
Per questo motivo l’estensore dell’editoriale auspica che tutti i paesi dovrebbero rafforzare, alla luce dell’esperienza maturata nel corso di questa pandemia, la preparazione dei servizi sanitari nazionali per la gestione delle patologie croniche, come il diabete, se in futuro si verificaranno situazioni di emergenza simili a COVID-19.