Giovanni Viafora per www.corriere.it
Ha contratto l’Hiv dove si credeva al sicuro: nel laboratorio di un’Università europea in cui stava svolgendo le ricerche per la tesi di laurea. Un incidente gravissimo, unico nel suo genere, che le ha distrutto la vita e la carriera. Ma oggi Federica, come chiameremo questa ragazza ferita, eppure così forte, alla fine di una battaglia straziante e solitaria durata quasi sette anni, ha deciso di portare in tribunale due Università, quella italiana e quella straniera, pretendendo un risarcimento milionario.
E per la prima volta, pur chiedendo di tutelare l’anonimato, di svelare la sua storia: «Lo faccio — afferma mentre è seduta nello studio del suo legale, l’avvocato Antonio Serpetti del foro di Milano — per tutti i giovani come me, che consegnano le loro vite nelle mani di chi dovrebbe tutelarle. Perché nessun altro sia costretto ad affrontare il mio calvario».
La scoperta
Federica festeggia il Natale con la famiglia. E siccome è una donatrice di sangue, approfitta dei giorni di vacanza per fare il prelievo. «Ero felice — ricorda —, le feste trascorrevano meravigliosamente e con il mio ragazzo progettavamo il futuro». Poi, all’improvviso, l’incubo. «Il giorno di Santo Stefano mi chiama il medico dell’ambulatorio. Mi dice: sei sieropositiva. Il mondo mi crolla addosso».
Federica non ha nessuno dei fattori di rischio previsti; è sotto choc, ma non ci mette molto a capire. «Ripenso subito agli esperimenti che avevo fatto sette mesi prima mentre ero all’estero — dice —: mi erano stati fatti manipolare pezzi del virus. Ma erano virus che non potevano replicarsi, detti difettivi. In teoria un’operazione senza rischi».
Il calvario
Federica, studentessa modello, si trova d’un tratto scoperta. Non capisce cosa sia accaduto, ha paura e intanto sente crearsi il vuoto attorno. «Il mio ragazzo, con cui stavo insieme da 6 anni, mi lascia. E io, a mia volta, mi chiudo in casa, sprofondando in uno stato di grave depressione».
Nonostante il peso, decide però di muoversi: la sfida è dimostrare che il contagio sia avvenuto davvero all’interno delle mura del laboratorio. Gli inizi tuttavia non sono consolanti: «Il primo medico a cui mi rivolgo non trova riscontri; mentre il precedente legale avvisa l’ateneo estero con una lettera in italiano, fatta tradurre in loco da un’altra studentessa, che semina il panico».
Ma Federica, ancora una volta, non demorde: cambia avvocato, rivolgendosi a quello attuale, Serpetti, e si affida ad uno dei centri più avanzati di ricerca in Italia per l’Aids, che, a sua volta chiama in causa il Laboratorio di Virologia dell’Università di Tor Vergata, a Roma. Di fronte al silenzio degli Atenei, partono le prime diffide per l’apertura assicurativa dell’incidente. E intanto cominciano le ricerche.
Lo studio
Ci vogliono altri cinque anni, però, per arrivare a trovare la strada, anni in cui Federica mantiene il segreto e intanto, con indicibile fatica, prova a costruirsi una vita parallela (oggi lavora, anche se è un’occupazione necessariamente di ripiego, rispetto alle sue potenzialità; e solo papà, mamma e alcuni ristretti amici conoscono la sua verità). Il virus che ha in corpo Federica, dicono i ricercatori, non è quello circolante tra gli uomini, ma è proprio identico a quello costruito in laboratorio.
Lo hanno scoperto grazie alla sequenza genetica. È un riscontro inoppugnabile. Già, ma resta la domanda, forse la più inquietante: come è stato possibile? Nel febbraio 2016 a Boston gli stessi ricercatori che hanno trovato la corrispondenza tra i virus, presentano il caso di Federica ad uno dei più importanti congressi scientifici del settore. Lo definiscono «disturbante».
E lanciano l’allarme: «Potremmo essere di fronte – dicono – al primo caso di contagio con un virus generato in laboratorio». Nel mondo scientifico la notizia ha un impatto deflagrante. Nello studio completo, pubblicato nel 2017, di fronte al fatto che non si sarebbe verificato alcun incidente (come rottura di guanti, punture), si considera addirittura la choccante ipotesi di una trasmissione dell’hiv «via aerosol». È solo un’ipotesi, ma tutti in quei giorni ne parlano. Nessuno, invece, può sapere che dietro a quei numeri ci sono Federica e il suo dramma.
Sicurezza
«La verità – dice ora lei –, è che non ho idea di cosa possa essere accaduto. Da allora me lo chiedo tutti i giorni. L’unica certezza è che non dovevo essere esposta a un virus capace di replicazione». Ma quindi, chi ha sbagliato? «Lo dovrà stabilire il tribunale (quello di Padova, davanti al quale per competenza territoriale è stata depositata la causa, rivolta sia all’Ateneo di partenza che a quello ospitante, ndr). Ma la mia vita è stata distrutta. E c’è una cosa che continua a tormentarmi: nessuno preparò me e gli altri studenti che entrarono in quel laboratorio a quegli esperimenti. Non ricevemmo alcun corso, nessuna indicazione sulla sicurezza. Com’è possibile che ragazzi così giovani siano messi in tali condizioni?».
E qui la voce di Federica si incrina: «Purtroppo c’è un’altra cosa che mi ha fatto soffrire in questi anni, ovvero che nessuno si è mai fatto sentire con me. Né l’Università italiana, dove mi sono laureata con 110 e lode, né quella straniera dove è avvenuto l’incidente. Sapevano tutto, ma mai una parola o una telefonata: mi hanno lasciata sola. Per cui oggi, che chiedo finalmente che mi sia riconosciuta giustizia, ai rettori dico anche: non dimenticatemi e fate in modo che non accada mai più».