Massimo Pisa per “la Repubblica”
Amanda apre: «C’è chi dice che sono innocente e chi dice che sono colpevole. Se sono colpevole, sono la persona definitiva da cui ti devi spaventare, perché sono la meno ovvia. Sono una psicopatica travestita da agnellino. Ma se sono innocente, sono te». Amanda chiude: «Alla gente piacciono i mostri, li vuole vedere, proietta le proprie paure, vuole rassicurazioni che i cattivi non siano loro. Abbiamo tutti paura, per questo la gente diventa matta».
Ecco, se nemmeno lei, “She Devil”, “Mangiatrice di uomini”, “Foxy Knoxy” (le etichette guadagnate in otto anni di vicenda giudiziaria), dopo un’ora e mezza di documentario riesce a fugare la nebbia di dubbi e ambiguità che la avvolgono al di là della sua vicenda giudiziaria, è certo che gli interrogativi sulla ragazza di Seattle e sul caso Kercher non ci abbandoneranno più.
I tesori da guardare in “Amanda Knox”, certosino lavoro di Brad McGinn e Rod Blackhurst per la piattaforma Netflix e ancora mai mostrato negli Usa sono altri. Le foto dei sopralluoghi della Scientifica in via della Pergola, le ditate di sangue di Meredith Kercher sul muro della sua stanza durante il suo massacro, i video dei rilievi che inquineranno processo e verità, gli audio dei colloqui in carcere intercettati. Fatti. Inediti.
Ma è chiaro che il palcoscenico è per lei, la grande ambigua. Che offre ricordi romantici dei suoi inizi a Perugia, qualche sciocchezza da ragazzina, tira fuori gli artigli, si commuove, non nasconde la fragilità parlando del suo primo incontro in carcere con la madre: «Ero di nuovo una ragazzina, sapevo di essere fottuta, avevo bisogno di lei».
E poi racconta il suo crollo, le pressioni che dice di aver subito in questura, il verbale contraddittorio in cui accusa Patrick Lumumba dell’omicidio, l’interrogatorio del pm: «Non era la risposta che voleva. Non sapevo spiegarmi, era impossibile». Il buio della cella di Capanne: «Ero spaventata. Pensavo al suicidio, a tutti i modi per farlo, al fatto che non sarei tornata a casa fino ai 50 anni». Gli occhiolini, i baci, la felicità per l’assoluzione sono tutti corollari di tesi difensive che già sapevamo: «Tutti cercavano la risposta nei miei occhi — sibila Amanda — invece le prove erano lì, non ci sono tracce di me in quella stanza».
Degli altri tre attori non protagonisti, due non fanno granché per catturarsi le simpatie dello spettatore. Raffaele Sollecito col suo impacciato inglese, le spiegazioni goffe, la freddezza nelle telefonate in cui dà l’allarme e il distacco che riserva a un omicidio. Nick Pisa, del Daily Mail, è il perfetto giornalista tronfio dei suoi scoop sui particolari morbosi e sulle prime pagine conquistate, autoassolvendosi alla fine: «Cosa dovevo fare, ulteriori verifiche? Perdere l’esclusiva? Non funziona così» .
E poi c’è Giuliano Mignini, il grande accusatore, il pm che ferma Knox e Sollecito e poi Guede, che parla per la prima volta. «Volevamo umanizzarlo — spiega McGinn — negli Usa era stato insultato ed era giusto che dicesse la sua». Lo seguiamo nei suoi convincimenti, si proclama «profeta in patria» quando il caso sembra chiuso, poi la sconfitta in Cassazione: «Se sono innocenti — dice alla fine — auguro a loro di dimenticare. Se sono colpevoli ricordo che oltre la vita c’è un processo, senza appelli o revisioni».
Di sicuro chi vedrà il film condannerà l’impazzimento dei media, compresi quelli americani per i quali McGinn e Blackhurst non hanno pietà, c’è pure Donald Trump che chiede il boicottaggio. Ma la verità definitiva non emerge anche se tanti elementi in più sono sul piatto. E allora si torna a lei, ad Amanda. «Anarcoide, non so se è un abitudine a Seattle» , la etichetta pregiudizialmente Mignini.
«Lei e il pm non si potevano capirsi, troppo diversi — conclude McGinn — ma alla fine abbiamo avuto empatia per l’umanità di tutti i protagonisti della vicenda. Anche per Amanda. Forse finita in una cosa più grande di lei. Manipolatrice? A volte ti viene da pensarlo ».
RAFFAELE SOLLECITO E AMANDA KNOX amanda knox i will never go willingly