IL CANTO DEL CUPERLO: “SE IL PD DIVENTA QUELLO DI CHI DICE CHE BISOGNA METTERE DEI PALETTI AL DIRITTO DI SCIOPERO, IL PD NON ESISTE PIÙ. HO CHIESTO A RENZI ‘CHE COS’È LA LEOPOLDA?’ E NON MI HA RISPOSTO”
1 - CUPERLO: «SCISSIONE? SAREBBE COLPA DI MATTEO»
Monica Guerzoni per il "Corriere della Sera"
Gianni Cuperlo, per il premier la sinistra di piazza San Giovanni è roba da museo delle cere.
«Io non ho nostalgia di nulla, ma un partito deve dire con chi sta e per chi si batte».
La piazza dei «reduci» e la Leopolda dei «pionieri», per dirla con Renzi, prefigurano due diversi partiti?
«Ho più rispetto io per la Leopolda di quanto non ne abbia mostrato Renzi verso i lavoratori e i giovani che hanno riempito San Giovanni. Però mi sembra che da quel palco Renzi osservi il mondo con i google glass. È la scelta di un mondo parallelo depurato da rabbia, paura, speranza».
Non sono i leopoldini a coltivare la speranza?
«Nell’impianto della Leopolda c’è un’idea della politica dove l’impulso del leader prevale sulla forza del diritto. Però questa non è concretezza, è una radice del populismo».
Renzi populista?
CONVENZIONE PD CUPERLO CIVATI RENZI
«Quando usa l’articolo 18 e dice che parlare delle norme che tutelano dal licenziamento è come voler mettere un gettone nell’iPhone, offende il milione di persone che hanno riempito le vie di Roma. Questo non va bene. Il punto è se tu, per uscire dalla crisi più grave del secolo, lavori per unire il Paese e non per dividerlo».
Il premier spacca il Paese?
«Descrivere la piazza come quelli che girano col telefono a gettoni è non capire che usciremo da questa crisi solo tutti assieme e non l’impresa contro il lavoro, una generazione contro l’altra, il Nord contro il Sud. Chi guida il Paese dovrebbe unirlo, non denigrarlo».
La scissione è in atto?
«Io voglio innovare il Pd e per questo voglio correggere una linea dai riflessi antichi. La scissione sarebbe una sconfitta del progetto nel quale abbiamo creduto e sta a tutti evitare di precipitare lì, ma è chiaro che Renzi ha una responsabilità enorme».
Vuole spingervi fuori?
«Spero non sia così, ma il premier non può spezzare il filo che lega milioni di italiani a una speranza che nasce. La sinistra da immaginare vivrà dentro parole come dignità, diritti umani globali e non nel mito di un futurismo senza visione».
Si sente a casa nel Pd del finanziere Davide Serra?
«Se il Pd diventa quello di chi dice che bisogna mettere dei paletti al diritto di sciopero, il Pd non esiste più. La sinistra è di fronte a una prova decisiva. Ho chiesto a Renzi “che cos’è la Leopolda?” e non mi ha risposto. E se è vero che per intervenire bisognava inviare il testo scritto agli organizzatori, il partito di Togliatti era una avanguardia di liberalismo. A proposito di innovazione...».
Leopolda partito parallelo?
«Con Renzi il Pd rischia di diventare una confederazione e in un modello simile le diverse culture hanno il dovere, non il diritto, di organizzarsi. Il congresso è finito, c’è un’altra storia tutta da scrivere. La sinistra deve porsi questa sfida e io la vivo come un nuovo inizio. Se la Leopolda è una corrente organizzata attorno al premier è evidente che si organizzerà anche un’altra parte, che non è nostalgica del passato, ma che ha un’altra idea di modernità».
L’area di Bersani ci sta?
«Io so che questa è l’esigenza che abbiamo oggi. Io ho cominciato a farlo con SinistraDem, ma la sfida riguarda tutti in un campo aperto».
Per tornare al 25 per cento?
«No, il punto è che dividendo il Paese è Renzi che quel 40% rischia di sciuparlo. Per rimanere lassù c’è bisogno di una sinistra completamente ripensata, che non può liquidare il popolo di San Giovanni come arnese di un passato duro a morire».
L’articolo 18 è la coperta di Linus della sinistra?
«Il nodo è come assumere, non come licenziare. Serve un patto sociale per la crescita e su questo terreno quel popolo è pronto a fare la sua parte. La piazza di sabato parlava anche con le lacrime di chi non ce la fa più. Chi liquida quel mondo morale come un vizio del passato offende il popolo senza il quale il Pd cessa di esistere e nasce un’altra cosa. Io mi batto perché non accada».
Se il Jobs act non cambia, lei vota la fiducia o se ne va?
«Intanto mi batto perché quella delega cambi. La voglio più coraggiosa. Se poi il testo dovesse rimanere quello uscito dal Senato, per me si aprirebbe un problema di coscienza. Così com’è non lo condivido».
2 - LE MOSSE PER DIVIDERE LA CGIL E METTERE LA SINISTRA ALL’ANGOLO
Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera"
Che fosse così, Matteo Renzi lo ha sempre saputo: «Ho voluto la bicicletta e adesso devo pedalare». Che avrebbe incontrato ostacoli nei «conservatorismi trasversali di tutti i tipi», anche: «C’è chi ha paura di mollare il potere che ha da più di vent’anni e ci farà una guerra senza esclusione di colpi».
Sono i burocrati, «l’aristocrazia dei ceti dominanti», quei «mandarini» che adesso nei ministeri si vedono arrivare gli uomini della nuova squadra del premier a gestire direttamente le pratiche più scottanti, sulla scia di ciò che succede negli Usa con lo staff del presidente, e non hanno più quella libertà incondizionata di cui godevano prima. E non c’è un uomo solo al comando, anche se, come sostiene Renzi, a un certo punto, «è giusto che la squadra mandi avanti il proprio leader a tagliare il traguardo».
Ci sono le ministre e i ministri giovani (anche quelli assenti alla Leopolda per cause di forza maggiore, come l’alluvione di Genova, cioè Andrea Orlando) che sono determinati quanto il premier. E i meno giovani lo sono forse anche di più: basti pensare che il discorso più applaudito di ieri (a parte, ovviamente, quello di Renzi) è stato l’intervento di Giuliano Poletti.
PIERLUIGI BERSANI A SERVIZIO PUBBLICO
Però ci sono anche degli «avversari» che non sembrano far paura premier. Anzi gli fanno gioco. Sono i rappresentanti della minoranza interna che sabato hanno sfilato a Roma. Ecco, loro, per Renzi non rappresentano un problema. Primo perché «non avere nemici a sinistra» o, quanto, meno «concorrenti», non è mai stato il suo assillo.
Secondo, perché il premier non crede che Maurizio Landini formerà con quest’area un nuovo partito. E non solo perché Renzi, nonostante sia lontano anni luce dal leader della Fiom, lo considera «una persona seria». E quindi gli crede quando dice, quasi infastidito, che a lui «interessa lavorare nel sindacato» e non «occuparsi di politica». Ma perché ritiene che comunque non imbarcherebbe quella compagnia.
Perciò, per dirla con le parole di un renziano dai modi spicci, «mena come un fabbro contro la vecchia guardia e la minoranza alla Bindi e Fassina». Il succo del suo ragionamento infatti è questo: «Non andranno da nessuna parte».
Con sommo dispiacere di chi vorrebbe volentieri fare a meno di loro. Basta sentire che cosa dice Beppe Fioroni, che fa capolino anche lui alla Leopolda: «Penso che Matteo abbia veramente cambiato verso al partito e quindi a questo punto i vari Fassina & company dovrebbero andarsene con la Cgil, scindersi invece di restare qui con noi».
Ma il sogno di Fioroni non si avvererà. Anzi chi ha studiato bene le mosse di Renzi nei confronti della Cgil in questo periodo ha tratto l’idea che il premier abbia scientemente spinto Susanna Camusso all’inseguimento del leader della Fiom per consentire a Landini di portare avanti il suo vero progetto, ossia quello di lanciare un’Opa sulla Cgil. Già, perché infatti, ormai tra Renzi e Camusso sembra quasi una questione personale.
I due si stanno antipatici. Mentre nelle realtà territoriali gli uomini di Renzi collaborano con la Cgil, o, meglio, con lo Spi (il sindacato dei pensionati). La governatrice del Friuli-Venezia Giulia Debora Serracchiani sta scrivendo la riforma sanitaria della Regione insieme allo Spi. E con lo Spi collabora in Piemonte Sergio Chiamparino, a Firenze il sindaco Dario Nardella, in Lombardia Lorenzo Guerini.
E non doveva essere un caso se ieri, nel giorno dell’intervento finale di Renzi, alla Leopolda, in avanscoperta c’erano i portavoce di Landini, Giorgia Fattinnanzi, e della leader dello Spi, Carla Cantone, Lorenzo Rossi Doria.