Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per www.editorialedomani.it
Marco Mancini, l’agente segreto videoregistrato in un autogrill mentre parla con Matteo Renzi, non ha incontrato solo con il capo di Italia Viva.
Report ha raccontato anche di alcuni appuntamenti con Matteo Salvini, il leader della Lega. Ora Domani è in grado di svelare un altro incontro con i vertici politici nazionali: quello con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ha ricevuto l’uomo del caso Abu Omar direttamente alla Farnesina.
Fonti autorevoli spiegano che nell’agenda del ministro 5 Stelle, all’inizio del 2020, era segnato un incontro con Nicola Gratteri, il capo della procura di Catanzaro. Ma insieme a lui, nello studio di Di Maio, a un certo punto si è presentato anche Mancini.
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TUTTI ALLA FARNESINA
L’incontro risale ai primi mesi del governo Conte II. Mancini, caporeparto del Dipartimento “Servizi per l’informazione e la sicurezza”(Dis), sperava da tempo (grazie anche all’appoggio che credeva di avere dal premier e da Gennaro Vecchione, l’ex numero uno del Dis sostituito anzitempo la scorsa settimana da Elisabetta Belloni) in una promozione a vicedirettore, fino a quel momento mai concretizzata. Impossibile sapere che cosa si siano detti Di Maio, Gratteri e Mancini.
È un fatto certo, però, che l’incontro dimostra come Gratteri (che nei giorni scorsi ha smentito seccamente di aver favorito l’incontro tra Renzi e la spia) abbia un consolidato rapporto di stima con Mancini, tanto da andare a trovare insieme a lui un potente ministro della Repubblica.
A Domani Gratteri conferma l’appuntamento. «È vero, ci siamo incontrati alla Farnesina a inizio 2020, ma per motivi squisitamente istituzionali», dice. «La presenza di Mancini non era prevista: mi aveva chiamato per farmi un saluto, e io risposi che stavo andando al ministero degli Esteri per un incontro con Di Maio. Mancini così mi chiese se poteva venire anche lui. Tra lui e il ministro c’è stato solo uno scambio veloce, tipo “piacere, piacere”, sarà durato un minuto. Durante la riunione istituzionale tra me e il ministro, invece, Mancini non c’era. E naturalmente non chiesi niente per nessuno».
Se dalla Farnesina confermano l’incontro senza aggiungere dettagli, fonti del Csm vicine a Gratteri credono che l’amicizia tra il pm calabrese e la spia possa essere usata per minare la candidatura del magistrato antimafia alla guida della procura di Milano. «Se continua così, Nicola rinuncerà alla sua corsa», chiosano.
Sul presunto “complotto” ai suoi danni Gratteri non dice nulla. Ma tiene a ribadire nuovamente che, nel caso di Renzi, non ha mai fatto da tramite. «Non ho organizzato io l’incontro tra lui e Mancini. Ho già detto che posso mettere a disposizione i miei tabulati se qualcuno vuole verificare».
I MACIGNI DI MANCINI
Naturalmente ogni incontro ha la sua storie. Non conosciamo i contenuti di quello tra Gratteri, Di Maio e Mancini. Nemmeno quello tra l’agente segreto e Renzi. Il polverone scatenato dal video che ha immortalato la coppia vicino una pompa di benzina è dovuto però a varie anomalie. Innanzitutto il timing dell’appuntamento: il governo Conte bis traballava da qualche settimana.
Poi il mistero della ripresa video, chi ha videoregistrato la coppia? Report, che ha mandato in onda le immagini, ha spiegato che a girarle è stata una professoressa che era lì per caso, mentre il senatore di Rignano teme di essere stato pedinato da soggetti terzi. Inoltre c’è l’inconsueto luogo dell’incontro e il fatto che Vecchione, il capo di Mancini, non fosse stato avvisato dal suo sottoposto.
Renzi, infine, non aveva alcun ruolo ufficiale nel governo, né poteri specifici di promuovere chicchessia: è questo uno dei motivi che ha portato il Copasir ha chiedere accertamenti sui motivi del meeting.
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Il caporeparto dei servizi, cresciuto nell’intelligence di Nicolò Pollari, non è il primo agente ad aver incontrato politici di rango. Gli addetti ai lavori spiegano che l’interlocuzione con il potere esecutivo è del tutto abituale. Sia per questioni professionali, sia per chi si candida a diventare direttore o vicedirettore, e si vuole presentare a chi decide le nomine.
La legge, in realtà, prevede che le promozioni siano indicate «in via esclusiva» dal presidente del Consiglio, sentito il parere del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr), a cui partecipa l’autorità delegata, il ministro degli Esteri, dell’Interno, della Difesa, dell’Economia, della Giustizia e dello Sviluppo economico. Anche i vice direttori, dice la legge 124 del 3 agosto 2007, sono scelti dal premier, che per i ruoli da numero due si dovrebbe consultare solo con i capi delle agenzie.
In Italia, invece, anche chi vuole fare carriera nei servizi deve godere di appoggi trasversali, e molti scelgono di sottoporsi al solito giro delle sette chiese, chiedendo sostegno a destra e a manca in modo da creare un consenso forte intorno al proprio nome. Una pratica discutibile a cui possono sottrarsi davvero in pochi.
Per Mancini appuntamenti e interlocuzioni non hanno comunque portato i frutti sperati. Nonostante l’appoggio del suo ex capo Vecchione, l’agente è stato sempre superato da altri candidati: nella tornata di nomine dell’estate del 2019 gli vengono preferiti due “esterni” come Angelo Agovino all’Aise e Vittorio Pisani all’Aisi, e quando a settembre si libera una posizione nel suo Dis viene sopravanzato da Bruno Valenzise. Anche tra il 2020 e il 2021, davanti a tre nuove caselle da assegnare, le aspirazioni di Mancini si infrangono davanti ad altri nomi.
Perché Mancini non vince mai la corsa? Non tanto per i suoi concorrenti, comunque di alto livello. Ma a causa di due fattori su cui si basa quella che considera una conventio ad exludendum: il suo iperattivismo, che alla fine infastidisce non poco chi comanda (Quirinale compreso), e la sua storia professionale, fatta di successi sul campo ma pure di vicende mai del tutto chiarite, dal caso dei dossier illegali Telecom (Mancini fu prosciolto, il suo amico Giuliano Tavaroli patteggiò 4 anni e mezzo) al rapimento dell’imam Abu Omar, i cui dettagli oscuri restano segreto di Stato ancora oggi.
Macigni che fanno di Mancini – che si professa da sempre innocente di qualsivoglia illecito - un nome su cui nessun politico vuole lasciare, nonostante promesse personali vere o presunte, le impronte digitali.