Estratto dell’articolo di Fabio Tonacci, Giuliano Foschini per “La Repubblica”
«Un’unità suicida è pronta ad agire: la nostra azione sarà la prossima». E ancora: «Se il tuo amico fa delle foto a tutti quelli del Gabinetto di guerra, a Netanyahu e la sua banda... come le carte da gioco... qualcuno come jolly (…) fai un elenco». Vivevano in Italia, a L’Aquila, dove erano arrivati perché nella ricostruzione post terremoto, dicevano, «era più facile trovare lavoro».
E dall’Abruzzo progettavano – questa per lo meno è l’accusa che muove loro la procura dell’Aquila nell’ambito di un’inchiesta coordinata direttamente dal procuratore nazionale antiterrorismo, Giovanni Melillo – di colpire obiettivi di primissimo livello in Israele e in Cisgiordania. «E anche in territorio italiano», scrive il gip Marco Billi nell’ordinanza di custodia cautelare.
Volevano usare «un pacco dell’amore», per esempio, cioè un’autobomba da lanciare contro obiettivi israeliani ad Avnei Hefetz, un insediamento in Cisgiordania. Così come stavano cercando un’arma che secondo gli inquirenti doveva essere usata nel nostro Paese.
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Elementi, raccolti attraverso le intercettazioni e le chat, che hanno spinto la Polizia ad arrestare tre palestinesi residenti a L’Aquila da anni: Anan Kamal Afif Yaeesh (36 anni) , Ali Saji Ribhi Irar (30 anni) e Mansour Doghmosh (29 anni). Sono accusati di aver organizzato dall’Italia un’unità militare, chiamata “Gruppo di risposta rapida- Brigata Tulkarem”, che voleva essere un’articolazione dei Martiri di Al-Aqsa, l’ala armata del partito Fatah riconosciuta come organizzazione terroristica dall’Ue e dagli Usa.
I tre – secondo quanto ricostruito dagli agenti dell’Antiterrorismo e della Digos dell’Aquila – da tempo gestivano flussi di denaro per finanziare la Brigata Tulkarem ma dopo il massacro del 7 ottobre avevano deciso per il salto di qualità.
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Secondo gli investigatori, la scelta di fare base in Italia non era stata casuale: la mente della cellula doveva avere sede lontano da Cisgiordania e Israele. E lontano anche da Roma, in una provincia fuori dai riflettori. […] Il giudice non ha dubbi sulle intenzioni del gruppo. […] «Si tratta di un’unità suicida, pronta ad agire in profondità e la nostra azione sarà prossima».
Come si è visto per anni con l’Isis, tra le preoccupazioni dei presunti attentatori c’era anche la narrazione delle loro gesta. Tanto che la cellula dell’Aquila si preoccupa di comprare le telecamere da utilizzare in un eventuale attentato. «La settimana prossima ti arriveranno delle telecamere da installare sul fucile e sui berretti, più giubbotti di protezione… cosi ogni combattimento, ogni colpo viene filmato… ».
BANDIERE DELL ISIS PORTATE DA HAMAS
Su chi sia, realmente, Yaeesh c’è un grande dibattito in Italia da settimane. Perché prima dell’arresto di ieri il palestinese era al centro di un caso: era stato arrestato su mandato di Israele con un provvedimento contestato dagli avvocati di Yaeesh (Flavio Rossi Albertini, lo stesso di Alfredo Cospito, e Stefania Calvanese) nel merito e nel metodo. Nel merito perché non lo ritengono un terrorista. Nel metodo perché avevano contestato la possibilità di un’estradizione: «Ha ricevuto per tre volte la protezione umanitaria. Come potrebbero oggi essere tutelati i suoi diritti in una prigione di Israele?».
Ma chi è Yaeesh, per cui ancora domenica c’è stato un sit-in sotto al carcere di Terni? Di certo si sa che è entrato in Italia nel 2017, dopo che la Norvegia gli aveva rifiutato la protezione internazionale. «La sua fidanzata – ricostruisce il gip - era stata uccisa dall’esercito israeliano perché ritenuta una kamikaze. Dal 2003 al 2005, aveva fatto parte del movimento politico Fatah e successivamente si era arruolato nelle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa».
Yaeesh Aveva lavorato poi, tra il 2002 e il 2005, «come ufficiale dei servizi segreti palestinesi, occupandosi di sicurezza interna». Nel 2005 era stato poi rinchiuso nella prigione di Gerico, dalla quale riuscì a fuggire. Fu poi riarrestato per quattro anni. «Era considerato come un eroe in Palestina», scrive il gip.
[…] «Dopo un periodo trascorso tra Norvegia, Finlandia e Svezia (con reiterati rifiuti di protezione internazionale), era giunto a L’Aquila perchè, dopo il sisma del 2009, avrebbe potuto ottenere più facilmente occasioni di lavoro, con possibilità di ottenere la protezione internazionale ». Così è stato. Il permesso è stato rinnovato per quattro volte, prima delle manette.