Flavia Perina per “la Stampa”
Le giovani destre sovraniste archiviano i complessi di inferiorità democratica dei loro padri e nonni, ossessionati dall'ansia di smentire ogni possibile connivenza con modelli autoritari, securitari, xenofobi, in una parola fascistoidi. Tanto la vecchia destra era ansiosa di mostrarsi buona cittadina del perimetro costituzionale, tanto la nuova non sente questa necessità, anzi gioca col cattivismo, ne fa la sua cifra comunicativa, cerca consenso evocando nel dialogo con gli elettori un radicalismo intollerante che va persino oltre le sue azioni, spesso più caute di quel che le parole fanno credere.
MELONI CON BANNON
Le immagini da mettere in fila per raccontare questa svolta sono numerose. Giorgia Meloni annuncia che sta trattando l' adesione a The Movement di Steve Bannon, che persino Donald Trump ha allontanato per eccesso di estremismo. Marine Le Pen, nel primo comizio dopo le ferie a Chalons, si fa fotografare su un carro armato insieme a un gruppo di militari in mimetica.
E poi, gli spot del giovane leader dell'ultradestra svedese Jimmie Akesson che recuperano l' antico conflitto del sangue e del suolo, il Blut und Boden che dominò la Germania degli Anni 30. Il ministro degli Interni austriaco Herbert Kickl che nega il dovere del soccorso in mare se i naufraghi sono immigrati. E ovviamente le quotidiane battute di Matteo Salvini, dove lo sfregio al politicamente corretto è una costante. Si assiste insomma a un generale addio alla strategia della de-diabolization che ha rappresentato per decenni l'assillo delle destre con aspirazioni di governo.
Una linea che fu coltivata con costanza e atti clamorosi di discontinuità, dalle parole di Gianfranco Fini a Gerusalemme sul «male assoluto» alla cacciata dal Front National del fondatore Jean Marie Le Pen dopo le dichiarazioni sulle camere a gas «accidente della storia». Non riguardava solo la destra radicale. Anche i leader moderati e liberali hanno sempre sentito l'esigenza di sottrarsi alla narrazione del nemico che li dipingeva come un incrocio tra i Colonnelli greci e Gengis Khan.
Silvio Berlusconi per un ventennio ha cercato di liberarsi dei panni dell'autocrate e dell'oligarca in ogni modo possibile, mischiando serio e faceto alla sua maniera: la sfilata con i partigiani ad Onna il 25 aprile del 2009 ma anche le foto con il cagnolino, con gli agnellini, il servizio sociale tra i vecchietti e addirittura la fondazione di un Partito dell'Amore nel 2014, a San Valentino, con un cuore nel simbolo.
MARINE LE PEN SUL CARRO ARMATO CON I MILITARI
SALVINI «UOMO NERO»
«Gli avversari lo descrivevano come un Mackie Messer, un pescecane, e lui ne soffriva, si ribellava a quel racconto» spiega il professor Giovanni Belardelli. Matteo Salvini, invece «sembra aver consapevolmente scelto di fare l'uomo nero, è convinto che questo ruolo premi e i sondaggi al momento sembrano dargli ragione».
Tuttavia, davanti a un fenomeno che non è solo italiano, forse si dovrà tener presente anche l'elemento anagrafico. Dopo aver seppellito le classi dirigenti post-belliche, la politica ha pensionato quasi completamente anche quelle che avevano conosciuto l'Europa del Muro di Berlino, la geopolitica dei golpe, gli anni del terrorismo e dei morti per strada, con i sentimenti di rifiuto che ispirava ogni esternazione che toccasse i nervi scoperti della democrazia.
il ministro dell'interno austriaco herbert kickl
Superato quel paradigma, la memoria novecentesca si sbriciola nel linguaggio ideologicamente confuso dei tempi, dove è possibile che Salvini usi un ducesco «Molti nemici molto onore» per rispondere a chi lo critica, ma anche che i suoi seguaci lo incoraggino su Facebook scrivendo «Hasta la victoria, Capitano», cioè il motto della rivoluzione comunista cubana, senza che nessuno ci trovi nulla di strano.