Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera”
Cabrini, quando ha cominciato a giocare a calcio?
«Da bambino. E con me, a quattordici anni, su quel prato di Cremona c'era anche Cesare Prandelli. Sono cresciuto con il pallone e così anche le mie amicizie più care. Cesare è il primo».
Papà Vittorio, però, la voleva nell'azienda di famiglia, è così?
«Faceva l'agricoltore, una persona generosa e altruista. Non mi chiese mai direttamente di rinunciare al pallone, però so che faceva telefonate qua e là, all'allenatore, per esempio, con cui si informava sui miei reali progressi».
E magari sperava che lei rinunciasse?
«C'era sempre mamma, che mi accompagnava a fare i provini».
Una mamma complice?
«Be' per anni lei ha risposto personalmente alle centinaia di lettere che arrivavano a casa».
Le famose aspiranti alla mano del «Bell'Antonio», come la chiamava Gianni Brera?
«Ma mi fa parlare di questo oggi che ho 64 anni, una moglie e due figli grandi?»
Ma la sua bellezza era leggendaria.
«A casa arrivavano migliaia di lettere. Mamma rispondeva con pazienza a ogni singola dichiarazione, tanto che un giorno quelli delle Poste ci telefonarono: siccome li stavamo rendendo ricchi, vollero concederci una specie di annullo postale».
E sua madre ha risposto a tutte?
«No, in casa ho ancora cinque sacchi di quelli neri, dell'immondizia, pieni di lettere inevase.
Povera mamma a un certo punto ha detto basta, non ne poteva più».
Le mandavano anche dei souvenir?
«A un certo punto ci ritrovammo con una specie di museo in casa: trecce, ciocche di capelli, biancheria intima, fotografie, anelli».
antonio cabrini con la nazionale femminile di calcio
Lei è stato una «bandiera» della Juventus e della Nazionale. Simbolo di una solidità difensiva che è importante in una squadra. Qualche volta, l'essere associato con insistenza (come in questa intervista!) alla bellezza fisica le ha dato fastidio?
«Ma no, con i compagni ci si divertiva anche per questo. Una volta andammo a inaugurare uno stadio a Campobasso. Arrivammo con il pullman, figuriamoci se si poteva parlare di servizio d'ordine. I miei compagni decisero di farmi andare in avanscoperta per farsi quattro risate e così mi buttarono giù quasi di peso: nei circa cinquecento metri dal parcheggio all'albergo ho perso la camicia, mi hanno strappato parte dei pantaloni e mi sono ritrovato con le mani piene di catenine d'oro».
Le ha tenute?
«No».
E quale ricordo conserva, oggi, di quella Juve a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, nella quale lei è stato anche capitano?
«Una grande avventura prima di tutto umana. Vede, io sono nato a Cremona, sono tutto sommato un provinciale. Ma l'aver vissuto a Torino mi ha insegnato tanto. Per esempio, a essere più sobrio: ieri come oggi Torino è la città ideale per un calciatore, perché anche se ti riconoscono per strada, la ritrosia sabauda impedisce loro di fermarti e chiederti un autografo o una foto».
PAOLO ROSSI MARCO TARDELLI ANTONIO CABRINI GAETANO SCIREA MICHEL PLATINI
Ma Torino, in quegli anni, aveva ben altri nodi: le proteste sindacali, il terrorismo. Voi calciatori eravate comunque già ben pagati: siete stati mai contestati?
«Un punto interessante: i cancelli di Mirafiori e il campo dove noi ci allenavamo erano vicini.
Io tante volte sono passato da solo con la macchina in mezzo ai picchetti di protesta. Eppure non ho mai avuto nessun problema. Mi sono fatto l'idea che quegli operai ci abbiano sempre considerati simili a loro. Tutti eravamo alle dipendenze di un'azienda molto potente e dunque vedevano in noi dei lavoratori. Certo, privilegiati rispetto a loro, ma sempre lavoratori».
E la società che atteggiamento aveva?
«Le faccio un solo esempio che spiega tante cose. Io stesso ho avuto una situazione difficile, perché ad un certo punto rapirono quello che era il compagno di mia nonna. Iniziarono le trattative, però i sequestratori sapevano bene chi ero io e che cosa facevo. Con grande discrezione, il club mi mise a disposizione un'auto blindata per un certo periodo. Ricordo ancora che Boniperti veniva negli spogliatoi a sentire l'umore. Era evidente che anche noi eravamo preoccupati per il clima che si respirava, e così ci tranquillizzava dicendo: "Andrà tutto bene"».
CABRINI FESTA CINEMA ROMA 2017
Boniperti è quello che vi voleva tutti ammogliati nel più breve tempo possibile?
«Sì, era convinto che il matrimonio ci avrebbe dato stabilità e solidità, ma, anni dopo, ha confidato a mia moglie Marta che aveva sbagliato tutto: "La maggior parte di quelli che si sono sposati giovani oggi sono separati", ammise».
Una prima moglie, Consuelo Benzi, i due figli Martina e Eduardo, la moglie attuale, Marta Sannito. Non sembra una vita scapestrata.
«Non lo è, anzi. Ma sono cresciuto in una squadra importante in un periodo in cui il calcio non era ancora spettacolo, bensì sport. E i valori dello sport venivano coltivati, protetti. La disciplina, la lealtà in campo, lo spirito di gruppo. Tutto questo c'è anche oggi, certo, però le voglio raccontare un episodio legato al celebre Mondiale dell'82 in Spagna, quello vinto dall'Italia».
Parla del rigore che lei sbagliò in finale?
«Proprio quello. Per me fu un colpo terribile, sia perché all'epoca non si coltivava l'importanza degli errori come si fa oggi, sia perché capivo di aver sbagliato in una cosa che mi riusciva sempre bene e questo mi faceva molta rabbia. Comunque, ne fui alquanto scosso e, anche se poi il Mondiale lo vincemmo lo stesso, io avevo quel peso dentro. Che vivevo come una colpa, non come una casualità sfortunata. Così, sull'aereo del ritorno, mi avvicinai a Pertini e gli sussurrai: "Chiedo scusa per l'errore". Il presidente mi guardò e mi disse: "Non dica sciocchezze, abbiamo vinto, è un grande risultato di tutti". Eppure io avevo sentito il bisogno di scusarmi con lui, che lì rappresentava tutto il Paese».
Quel Mondiale è parte della nostra storia recente. La partita a carte sull'aereo con Pertini, il sorriso di Bearzot. Che ricordi ha lei?
«Io e Paolo (Rossi, ndr .) eravamo in stanza assieme. E Tardelli veniva a romperci le balle, come d'altra parte faceva con tutti, perché non dormiva e non a caso il mister lo chiamava Coyote. E allora Bearzot ogni tanto piombava in camera per riprendersi Marco e cominciava a farci la predica sull'importanza di riposare, di essere lucidi l'indomani, eccetera. Il problema è che poi anche lui si sedeva accanto a noi e cominciava a parlare di tattica, strategie, ruoli. Io e Paolo volevamo soltanto dormire, ma come facevamo a dirglielo?»
E vai di notti insonni!
«Però che perfidi i giornalisti quando fecero insinuazioni sul fatto che io e Paolo dormivamo assieme. Quelle cose ci amareggiarono molto e così decidemmo per il silenzio stampa».
Lei ha citato Prandelli, ma anche Pablito è stato un suo caro amico. Un ricordo?
«Un ricordo buffo. Paolo era goloso di caramelle e così girava sempre con le tasche piene.
Però se gliene chiedevi una diceva sempre che non ne aveva. E quando doveva mangiarne, la scartava in tasca e se la portava alla bocca con la stessa velocità con cui scattava sul campo. Io penso che lui provasse quasi imbarazzo per questa golosità, come se fosse una debolezza. Questo ricordo me lo rende ancora più caro».
Un'altra figura importante nella sua carriera è stato Giovanni Trapattoni.
«Un uomo inflessibile. Non dimenticherò mai quella volta che mi indicò un percorso da fare di corsa entro un certo tempo. Quando aggiunse: "Se io trovo uno che, nello stesso arco di tempo, fa un passo in più, lo metto al tuo posto».
È vero che Gianni Agnelli vi telefonava alle sei del mattino?
«Eccome. Chiamava soprattutto Platini, ma una volta chiamò anche me e io non ricordo nemmeno che cosa risposi. Ma vorrei dire una cosa: Agnelli non era soltanto il proprietario della squadra, era un uomo che di calcio capiva davvero e che sapeva tenere certi equilibri. Platini lo scelse lui, così come anche altri. E ci teneva moltissimo alla squadra: un giorno lo vidi arrivare al campo di allenamento seguito da un uomo non tanto alto e ben vestito. Lo riconoscemmo poco dopo, era Henry Kissinger. Al campo l'Avvocato portava intellettuali, imprenditori, grandi protagonisti di quella che era la geopolitica dell'epoca: una visione molto lungimirante non tanto della squadra, quanto del calcio nella sua interezza».
Antonio, piccolo momento di gossip spicciolo: del suo flirt con Sonia Braga già sappiamo. Ci rivela adesso un altro amore del passato che non tutti sanno?
«Devo proprio?»
Eh sì.
«Iris Peynado».
La bellissima attrice di «Non ci resta che piangere»?
«Una donna straordinaria. Invece Sonia Braga, che all'epoca era la donna di Robert Redford, me la presentò Gianni Minà, a New York, nel corso di una festa. Ma non è che io abbia avuto milioni di amori, eh».
Com' era Maradona fuori dal campo?
«Un ragazzo dolce e disponibile, è stato quello che si è caricato addosso tutte le problematiche della squadra e della società. Meno male che a me non toccava averci a che fare durante la partita, perché era davvero il più forte di tutti. E anche corretto: in campo con lui ci andavano molto pesante, ma io non gli ho mai visto fare scorrettezze evidenti».
Cabrini, ce la confessa una debolezza?
«Se rispondo risotto alla milanese con zafferano e una spolverata di liquirizia va bene?»
Di più.
«Tortelli di zucca. Oltre non vado».
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