1 - POP, IRRIVERENTI, SOPRATTUTTO CREATIVI I NUOVI SOUVENIR RACCONTANO L’ITALIA
Silvia Nani per il “Corriere della Sera”
Souvenir. Vocabolo che rimanda nell’immaginario a un piccolo oggetto di pessimo gusto, confinato a soddisfare il piacere un po’ feticista di chi, in viaggio, è a caccia del «ricordino». Se dall’epoca del grand tour a oggi il piacere nello scoprire l’Italia è rimasto immutato, quest’anno, in vista dell’Expo, saremo la meta per eccellenza di un turismo affascinato dalla nostra arte del saper vivere, che spazia dall’architettura al cibo.
Non a caso quest’anno i designer si stanno dedicando a rileggere il tema dell’oggetto-ricordo, attraverso la ridefinizione di un’estetica che punta sulla sua capacità di cristallizzare un simbolo di un luogo, concreto o emotivo, e contribuire a fissarlo nella memoria. Per portarlo a casa.
«Fotografare Roma attraverso i suoi emblemi e trasferirli in una collezione di oggetti», così Giulio Cappellini, curatore assieme a Domitilla Dardi di «Local Icons-Greetings from Rome» (che inaugura al Maxxi il prossimo 27 marzo, in collaborazione con Alcantara), racconta la sfida lanciata a nove designer, autori di 16 oggetti simbolo della «romanità». «Per esempio Lanzavecchia e Wai si sono ispirati al motivo architettonico delle cupole di San Pietro e del Pantheon per due lampade, Paola Navone ha reinventato, in un cuscino, l’anguria delle estati capitoline. Zanellato e Bortotto hanno trasformato dei sanpietrini in fermacarte».
Suggestioni estetiche sì, ma c’è molto di più: la capacità di raccontare un saper fare italiano. «Per esempio il porta tablet di Patricia Urquiola riprende la grafica dei tombini romani attraverso un sofisticato metodo di stampaggio tridimensionale dell’Alcantara, rifinita poi a mano. Ormai, complice la globalizzazione, in Italia i souvenir sono quasi tutti made in China, e gli oggetti di artigianato spesso si trovano identici in tutto il mondo: valorizzare il fatto a mano e le eccellenze locali diventa un modo per salvaguardare l’identità del luogo».
Spirito pop, tra irriverenza e ironia: lo stile italiano è anche questo, come racconta Stefano Seletti che, assieme a Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari, lancerà durante la Design Week una nuova serie di tavolini e piatti in porcellana con le immagini tratte dalla loro rivista di immagine Toiletpaper: «Motivi dirompenti secondo il loro stile. Esattamente come Il Dito di Cattelan, emblema della piazza della Borsa milanese, che diventerà una nuova serie limitata di carillon e boule-de-neige». La vendita su banchetti da luna-park per il fuori Salone e poi gli oggetti andranno in giro per il mondo: «Al museum shop del MoMA e in alcune gallerie delle capitali europee».
Maurizio Cattelan in studio con Jim Carrey
Souvenir come mezzo per raccontare a tutti il nostro design: ci ha pensato George Beylerian con la serie De Gustibus, progetti nuovi e d’archivio di strumenti legati al mondo del cibo. Lui, che negli anni 60 come distributore dei marchi made in Italy, contribuì alla notorietà del design negli Stati Uniti, oggi propone una serie di 32 oggetti di altrettanti progettisti: «Democratici nel prezzo, per il turista dell’Expo e in vendita sul web», precisa, «Racconteranno al mondo l’Italia che amo, fatta di fantasia, leggerezza e piacere per la tavola».
E se il design fosse la chiave per scongiurare l’accezione di kitsch insita nel souvenir? Alessandro Mendini concorda: «Persino la Torre Eiffel-lampada, se ha una qualità progettuale, non lo è. L’importante è che stimoli l’affetto, l’unico sentimento che fa scattare la voglia di acquisto di un oggetto ricordo». Così, anche lui quest’anno si è applicato in una versione souvenir del suo famoso cavatappi Alessandro M., in abito da cuoco e cappello a forma di duomo di Milano: «A metà tra kitsch e ricerca estetica», precisa. Come dire, la virtù sta nel mezzo.
Cibo (e i suoi strumenti), ovvero un tema forte dell’italianità. Ne sa qualcosa Alberto Alessi, che se ne occupa da sempre: «Penso per esempio al reggifiasco che progettammo negli anni 20 e ora è una tipologia estinta», ricorda, sottolineando però l’esigenza, per lui, di fare oggetti utili: «Il souvenir è solo un divertissement», precisa. Quest’anno il marchio celebra l’Italia con una serie di statuine sulle regioni italiane («È la nostra rilettura delle classiche figure femminili in porcellane»), ma, riflettendo su come raccontare il made in Italy nel mondo, lui non ha dubbi: «È la missione dalle “fabbriche” del design italiano, trasposizione contemporanea delle botteghe rinascimentali: fare oggetti utili e di qualità». Tutto qui. Con buona pace del souvenir.
maurizio-cattelan-photo-by-pierpaolo-ferrari
2 - IL LAOCOONTE-GADGET NEI MERCATINI DEL ‘500 I PUTTI DI RAFFAELLO? FIGURINE IN CASA TOLSTOJ
Dal “Corriere della Sera”
Nel Novecento la condanna della scuola filosofica di Francoforte nei confronti della cultura di massa fu severa almeno quanto lo è oggi quella della Bundesbank verso la Grecia. Per Horkheimer e Adorno la massificazione della cultura era l’humus del totalitarismo politico, la realizzazione fallimentare del sogno illuministico della cultura che esce dalla dimensione elitaria per ridurre il singolo a consumatore passivo.
A rincarare la dose ci si mise Clement Greenberg con la sua definizione del kitsch come il simulacro degradato che diluisce la cultura avanguardistica. Si era perso di vista il fatto che il fenomeno del consumo di massa dell’arte non appartiene solo alla società industriale e capitalistica. Già subito dopo la sua scoperta, nel 1506 a Roma, la statua del Laocoonte era diventata una star. Sulle bancarelle se ne potevano acquistare repliche di ogni tipo e dimensione, da quelle a basso costo in stucco o terracotta, a quelle in bronzo e persino in piatti come souvenir.
Ode alla frutta e alla verdura
La copia più colossale, in scala al vero, fu realizzata per il re di Francia, ma il papa, pur possedendo l’originale, la trovò talmente bella che decise di tenerla per sé. Insomma nell’antichità la replica, la sua parodia (Tiziano trasformò il Laocoonte in scimmia), la citazione, la manipolazione (Michelangelo diede a Dio il busto del Laocoonte nella Sistina) non era segno di cattivo gusto, ma al contrario misurava il potere di fascinazione di un’immagine. Lo stesso fenomeno di consumo popolare toccò a altre icone come, dopo che nel ‘700 fu portata a Dresda, alla Madonna Sistina di Raffaello.
Gli angioletti furono commercializzati in santini, cartoline natalizie fino a finire nelle case di Tolstoj, Dostoevskij e nel salotto della zarina. Oggi possiamo riconoscere che le immagini sono un bisogno primario dell’uomo quanto il cibo. Pochi possono permettersi le aragoste; molti, pur di non morire di fame, vanno al fast food. Ma tutti abbiamo bisogno di mangiare.