“Three more Central Banks cut rates.” Our problem is not China - We are stronger than ever, money is pouring into the U.S. while China is losing companies by the thousands to other countries, and their currency is under siege - Our problem is a Federal Reserve that is too.....
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) August 7, 2019
1 – USA, LO SPETTRO DELLA RECESSIONE TRUMP: «IL PROBLEMA È LA FED»
Flavio Pompetti per “il Messaggero”
Il prezzo dell'oro raggiunge i 1500 dollari l'oncia, la rendita dei buoni decennali del Tesoro statunitensi vanno a picco a quota 1,63%, le banche centrali di India, Nuova Zelanda e Tailandia tagliano i tassi di sconto sulle relative valute, mentre le borse mondiali accusano un'altra giornata di alto nervosismo. Lo spettro di una possibile recessione che parte dagli Usa per investire il resto del mondo, negli ultimi giorni sta prendendo forma in una serie di dati preoccupanti, la cui concomitanza non si vedeva dall'estate del 2007.
L'allarme viene dall'alto, con un tweet presidenziale che ancora una volta sollecita l'intervento della Fed. Il presidente punta il dito sull'inversione della curva tra i bond a tre mesi e quelli decennali. In un'economia sana, la fiducia degli investitori spinge in alto il rendimento di quelli a lunga scadenza, e rende più rischiosi quelli a breve. Lo scorso marzo questo rapporto ha iniziato ad invertirsi, e ieri i bond a tre mesi garantivano un interesse del 2,05%, mentre quelli a dieci anni hanno perso 42 punti base (0,42%) in soli otto giorni.
La recessione è già in atto nel settore industriale, in crescita negativa da due trimestri, perché l'incertezza causata dalla guerra commerciale e la consapevolezza di una frenata del Pil globale hanno paralizzato gli investimenti, e la produzione ne risente. L'idea che una brusca frenata possa trasmettersi anche al resto dell'economia sembrava un ipotesi fantasiosa alla luce delle rassicurazioni della Fed; poi è arrivato il terremoto di lunedì scorso, seguito ieri da un altro profondo scivolone dei listini di Wall Street.
Lunedì, mentre i tre maggiori indici perdevano il 2,9% di valore, una sofferenza maggiore è stata accusata dalle maggiori banche: -4,42% per Bank of America, -3,87% Morgan Stanley, -3,67% Goldman Sachs, -3,59% per Citigroup. Significativo è il fatto che anche i due maggiori gruppi privati che assicurano il debito bancario sono ugualmente in difficoltà (-3,75% per Lincoln National e -3,58% per Ameriprice Financial).
I DATI
Dietro questa sofferenza c'è l'accumulo di una bolla creditizia gigantesca. Il totale dei derivati detenuti dalle banche Usa nel settembre 2008 al picco della crisi era di 184.000 miliardi. Lo stesso dato oggi è di 272.500 miliardi. La stagnazione delle paghe negli ultimi anni, unita alla lievitazione dei costi per le tasse scolastiche, hanno costretto i consumatori ad assumere un livello di debito a fine 2018 (13.300 miliardi) più alto di quanto lo era nel 2008 (12.700 miliardi).
La leva dell'indebitamento industriale nei tre anni di presidenza Trump è cresciuta del 40%, e su questo sfondo il governo federale si prepara ad infrangere di nuovo a settembre il tetto di spesa di bilancio.
LA DOMANDA
Come è stato possibile ricreare le condizioni che innestarono la recessione globale undici anni fa? La legge Dodd Frank nel 2010 aveva imposto alle banche di isolare i derivati dagli altri asset come i conti correnti, che sono coperti da assicurazione federale. Le banche quattro anni dopo sono riuscite a far inserire un emendamento nella legge di bilancio di emergenza, che annullava questa disposizione. I derivati coperti da assicurazione sono tornati ad essere molto popolari sul mercato, e oggi sono di nuovo un iceberg che viaggia sotto il mare in tempesta della borsa degli ultimi giorni.
Basterebbe un nulla: l'annuncio di un riflusso dei dati sull'impiego; la conferma di un altro trimestre negativo per le imprese, l'impennata dei prezzi prevista dopo l'entrata in vigore dei nuovi dazi contro la Cina, a far saltare la polveriera. Di fronte a questi dati la richiesta pressante che Trump sta facendo alla Fed di Jerome Powell assume più l'aspetto di un intervento di salvataggio, piuttosto che di stimolo alla crescita. E le armi in mano al direttore della Banca centrale, per quanto potenti, potrebbero rivelarsi inadatte ad affrontare l'emergenza.
2 – CONTINUA LA CORSA AI BENI RIFUGIO, L'ORO SFONDA I 1.500 DOLLARI L'ONCIA
Roberta Amoruso per “il Messaggero”
Meglio correre ai ripari. Lontano dal rischio e verso portafogli più diversificati tra titoli di Stato, obbligazioni corporate di qualità (investment grade), oro, yen giapponesi e franchi svizzeri. I mercati hanno capito subito, dopo la mossa a sorpresa di Pechino con tanto di valutazione dello yuan, che il nuovo affondo sui dazi di Donald Trump rischia di innescare una vera e propria guerra valutaria.
Certo, ci sono molte differenze con il precedente del 2015, l'ultima volta che Pechino è intervenuta a gamba tesa sullo yuan. Ma anche se Fed e Bce sono pronte a usare l'artiglieria per scongiurare una brusca frenata dell'economia mondiale, ci sono già tutti i segnali di una recessione imminente.
L'ALLARME
Da Pimco a Morgan Stanley, da Nomura a Natixis, evocano un rischio in salita di stop della macchina globale. E un po' tutti snocciolano le strategie di difesa per affrontare l'escalation di incertezza aggravata anche dall'incognita Brexit.
Così, mentre il petrolio è sceso del 2% l'oro è volato oltre la soglia psicologica dei 1.500 dollari l'oncia sui livelli di aprile 2013, ma lontano dai 1.900 del 2011, spingendo il rialzo da inizio anno oltre 17%. Un modo, per gli investitori, per puntare su un asset che conserva valore nel momento in cui i governi puntano a valute più deboli per essere maggiormente competitivi.
Dopo il timido taglio dei tassi deciso dalla Fed il 31 luglio, è ora più probabile una politica più aggressiva da parte di Jerome Powell, ieri attaccato di nuovo frontalmente da Donald Trump. In questo contesto il metallo giallo resta un approdo per gli investitori che alleggeriscono il portafoglio dagli asset a rischio e mantengono un approccio diversificato rispetto ai titoli di Stato costretti a una brusca contrazione dei rendimenti. I T-Bond sono scesi sotto l'1,6%, e i tassi reali Usa decennali stanno tornando verso lo zero (allo 0,16% contro l'1% di un anno fa) gettando un'ombra sulla sostenibilità del rally del dollaro.
Mentre il Bund tedesco è sceso al record di -0,586% con i Btp all'1,4%. Tanto che la curva dei rendimenti tedeschi comincia ad assomigliare a quella Usa, prossima alla tipica inversione pre-recessione (con i titoli a breve che pagano più di quelli a lungo). A questo punto l'oro potrebbe spingersi anche oltre visto che l'indebolimento dello yuan può dare nuovo slancio alla domanda di oro fisico in Cina, tra i principali consumatori al mondo. La divisa locale rende del resto più attrattivo il metallo giallo che, espresso in dollari, garantisce anche l'esposizione al biglietto verde.