BIENNALE CHE PALLE! - FRANCESCO BONAMI: “MESTA COME UN PIATTO DI VERDURE LESSE, CUPA COME UNA PALUDE: L'ARTE DA MEZZO PER RACCONTARE IN STERILE MEZZO PER DOCUMENTARE LE DIFFICOLTÀ DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA - L'EFFETTO DI ESSERE DAVANTI A UN ACQUARIO DOVE I RIFUGIATI SONO I PESCI ROSSI”
Francesco Bonami per La Stampa
Cosa è la Biennale di Venezia oggi? Per la risposta bisogna arrivare a metà delle Corderie dell' Arsenale dove troviamo il lavoro dell' artista brasiliano Ernesto Neto, una rete gazebo attorno al quale danzano gli spettatori. La Biennale di Venezia, non questa in particolare (che aprirà al pubblico da sabato) ma in generale, è un Cupixawa, ovvero un luogo di socializzazione, incontri politici e cerimonie spirituali che, ce lo racconta Neto, era appannaggio solo degli Indios della tribù degli Huni Kuin e oggi anche dei visitatori della Biennale. Bene o male?
Un po' tutti e due. Un bene perché condividere i problemi del mondo con altra gente è meglio che farlo da soli. Un male perché il tentativo di trasformare l' arte da mezzo per raccontare in sterile mezzo per documentare le difficoltà della società contemporanea ci porta in mezzo a una palude traditrice dalla quale diventa difficile uscire.
La Biennale di Christine Macel prova a capire dove l' arte debba dirigersi. A volte la direzione è buona, a volte meno.
Un' altra opera, questa nel padiglione centrale dei Giardini, rappresenta bene la condizione del curatore di questa edizione. È un video dell' artista russo Taus Makhacheva, Tightrope . Dura 58 interminabili minuti e dieci lunghissimi secondi. Ma un' immagine è illuminante. Un uomo cammina sopra una fune tenendosi in equilibrio su un' asta alla quale sono appesi due dipinti figurativi.
Il curatore di una Biennale è questa persona in difficile equilibrio su una corda, la società con tutte le sue grane irrisolte, che tenta di traghettare dall' altro capo del filo l' arte: se non quella classica, quella che crea luoghi simbolici e ci fa attraversare la soglia invisibile tra realtà e immaginazione.
Quando uno entra nella sala centrale del Padiglione principale e si trova dentro il Green Light Laboratory di Olafur Elliasson, questa soglia non la attraversa e il senso di sconforto o confusione prevale. Certo costruire lampade ecologicamente ineccepibili per i Paesi in difficoltà, come fa l' artista islandese, è encomiabile, e lo è ancora di più se a costruire le lampade sono giovani rifugiati ai quali viene dato qualcosa da fare, ma forse la Biennale non è il luogo migliore per queste operazioni. L' effetto di essere davanti a un acquario dove i rifugiati sono i pesci rossi sminuisce lo sforzo umanitario dell' artista.
Macel sembra essere conscia di questo rischio e infatti in mezzo a impegnativi video inserisce antidoti contro l' avvelenamento per abuso d' informazioni e documenti. Un buon esempio sono i dipinti dell' artista cinese Liu Ye, piccoli lavori dove sono rappresentate copertine di libri che diventano, a dispetto dei pochi centimetri quadrati, immensi spazi dove abbandonare sguardo e preoccupazioni.
Lo stesso avviene con i magnifici ritratti del pittore siriano scomparso Mirwan. Il deceduto, possibilmente di un Paese non occidentale, è uno dei trucchi o assi nella manica che molti curatori oggi usano per toccare il cuore dello spettatore.
Un altro momento di pausa si trova nella stanza con i quadri di Firenze Lai, artista nata a Hong Kong. All' Arsenale il corrispettivo di Elliason è Lee Mingwei di Taiwan con il suo The Mending Project , il progetto del rammendo. Uno porta un indumento sdrucito e c' è qualcuno al tavolo che lo rammenda, poi lo sistema su un tavolo con la matassa del filo colorato usato per il rammendo ancora attaccato all' indumento e inchiodato al muro. L' effetto mezzo tela di ragno mezzo Seurat è efficace, ma il dubbio se una Biennale debba essere anche merceria o sartoria rimane forte.
Si prosegue, e non poteva mancare l' artista dal nome impronunciabile e dalla provenienza improbabile. Si tratta della eschimese Kanaginak Pootoogook. Bellissimi disegni a inchiostro ma prevedibili, e l' artista in questione diventa un po' il trofeo di caccia della curatrice. Tra gli italiani, Michele Ciacciofera, più etnologo che artista, presenta ceramiche e altri artefatti che fanno riferimento alle architetture funerarie della Sardegna. Finale delle Corderie spettacolare folk con la montagna di grandi palle di fibre naturali dell' americana Sheila Hicks.
Racchiudere una Biennale e il lunghissimo e serio lavoro di molti mesi in poche righe è tanto impossibile quanto ingiusto, ma il mestiere del critico è ingrato. Prendo in prestito allora una frase di una poesia di Pasolini citata in mostra dall' artista inglese Ceith Wyn Evans: « Un pomeriggio tardo in fondo alla provincia. C' è il silenzio, il nulla - e le mosche - di quell' ora». Ma forse quello che l' arte rischia di diventare è racchiuso nel lavoro del regista americano, in mostra, John Waters, Study Art Sign (For prestige or Spite) , studio per un segnale artistico (per prestigio o per dispetto).
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