BLACK ART! - ANTONIO RIELLO: IN MOSTRA ALLA “TATE MODERN” DI LONDRA IL MONDO DELLA CULTURA AFRO-AMERICANA VISTA ATTRAVERSO LE OPERE DEGLI ARTISTI CHE HANNO COMBATTUTO PER LA LIBERTA’ E L’INTEGRAZIONE RAZZIALE – C’È ANCHE IL CELEBRE RITRATTO DI MUHAMMAD ALÌ DI WARHOL E BARKLEY HENDRICKS, CHE DIPINGE SE STESSO NUDO E "BEN DOTATO" COSÌ COME VUOLE IL CLICHÈ BIANCO...
superman hires soul of a nation
Antonio Riello per Dagospia
Tate Modern. Londra. La mostra, molto ben curata da Mark Godfrey and Zoe Whitley, si sviluppa in dodici sale ed è, per definizione, una mostra "politica", dove la ricerca artistica va di pari passo con l'impegno civile contro il razzismo. E' una situazione che fondamentalmente illustra come il principale nervo scoperto della coscienza statunitense, cioè la "questione nera", abbia investito e plasmato i turbolenti anni americani della Guerra del Vietnam.
Negli Stati Uniti l'affrancamento dalla schiavitù (1865) fu seguito prima dalla segregazione razziale e poi, dopo il Civil Rights Act del 1964, da una sorta di ipocrita silenziosa discriminazione, che in una certa qual misura continua purtroppo ancora oggi. Il faticoso cammino della cultura Afro-Americana per affermare la propria dignità è una storia che va senz'altro conosciuta meglio. In Europa generalmente se ne sa abbastanza poco. E' una vicenda fatta di grandi sofferenze e talvolta anche di scelte eversive e violente.
Due sono gli eroi (che si detestavano e disprezzavano a vicenda) di questa epopea. Due approcci e due stili decisamente diversi.
Martin Luther King, il "Buono". Lungimirante, cittadino americano esemplare, nobile nelle sue visioni e geniale nella sua dialettica, sempre molto rigoroso ma anche instancabilmente alla ricerca di una visione positiva. Per lui la lotta significava oceaniche e pacifiche marce di popolo e la sensibilizzazione dei media.
Malcom X (Malcom Little per l'anagrafe), il "Cattivo". Aggressivo, incoerente, esaltato, carismatico, estremista, imprevedibile, retorico, con controverse - e provate - tendenze criminali. Per Malcom X la lotta poteva solo essere la lotta armata.
Tutti e due finirono morti ammazzati. Uno da un complotto razzista mai ben chiarito fino in fondo, l'altro da alcuni dei suoi stessi seguaci che si erano sentiti traditi dall'ennesima sterzata radicale del capo.
Sullo sfondo c'era anche la temibile presenza del gruppo delle Black Panters (i cui leaders principali erano Bobby Seale e Huey Percy Newton) pronti nei primi anni 70 anni addirittura a scatenare la guerra civile sul suolo americano.
Finirono mestamente anche le "Pantere", ufficialmente solo nel 1982, ma in realtà erano già in profonda crisi da parecchi anni tra scandali, abusi di droghe, borghesi ripensamenti e tradimenti vari. Qualcuno si rifugiò anche nella religione e l'Islam ebbe un certo successo in questa fase. Anche le donne fecero la loro parte, chi non ricorda la tosta Angela Davis?
Complessi apparati testuali (a volte un po' prolissi) e abbondanti contributi video introducono lo spettatore nell'ambito della variegata cultura urbana Afro-Americana, che da città a città cambia assumendo identità specifiche. Più spesso gruppi e "bande" di artisti più che singole personalità di rilievo. Le tecniche e i materiali sono molteplici e variano, anche questi, secondo le coordinate geografiche.
La rassegna parte dal 1963 con lo Spiral Group di New York. Un po' optical è un po' situazionista. Tutto è visivamente giocato sulla dicotomia bianco/nero. L'autore più interessante in questa sezione sembra essere decisamente Norman Lewis.
E' quindi la volta dei Los Angeles Assemblage, un gruppo di scultori californiani che pongono direttamente la questione dello svantaggio socio-economico dei ghetti neri. Le loro sculture fatte di scarti e spazzatura parlano da sole. Forse un poco déjà vu ma certo efficaci.
Segue poi il cosiddetto gruppo degli AfriCobra, basato a Chicago e animato da una sostanziale adesione alle tesi guerrigliere di Malcom X. Una grafica Pop con colori e grafiche insurrezionali.
Eccoci di nuovo a Los Angeles con a sezione "Three Grafic Artists": Charles White, David Hammons, Timothy Washington. Hammons (discepolo del più anziano White) è forse il talento artistico più rilevante dell'intera mostra: i suoi "dipinti fatti con il corpo" si ricordano con piacere per il loro inusuale carattere.
Segue una stanza dedicata ai "Black Heroes" dove gli artisti in questo caso non sono necessariamente neri. Troviamo l'immancabile Andy Wharol con il suo celebre ritratto di Cassius Clay (poi diventato Muhammad Alì). Una figura mediatica quella di Clay assolutamente eccezionale e globale: il campione di pugilato di colore che riscatta con i suoi successi (e anche la sua coerenza) la condizione della sua gente.
In effetti negli USA lo sport, molto più delle arti visive, ha contribuito a una sostanziale apertura verso la cultura nera e soprattutto a renderla, un poco alla volta, glamour. Sempre in questa area un bravo pittore, Barkley Hendricks, dipinge se stesso nudo e "ben dotato" così come il clichè bianco vuole sia il maschio di colore. In questo caso sembra averne titolo, comunque.
Da segnalare anche le fotografie di Roy DeCarava, le opere di Alma Thomas e i lavori quasi forensi di Dana Chandler. Ma soprattutto le installazioni di Betye Saar. Questa artista dopo aver assorbito la cultura del Vodoo tipica di Haiti (dove ha soggiornato lungamente) la "traduce" in impressionanti opere. Una "magia" opportunamente americanizzata e addomesticata, ma non meno inquietante.
Una sezione, l'ultima, è dedicata alla galleria JAM di New York. La galleria chiude nel 1986 ma riesce a sdoganare più di qualche artista Afro-Americano sulla esigente scena artistica di Manhattan. Questo progetto espositivo si ferma appunto alla fine degli anni 80, ed è per questo che mancano grandissimi artisti del calibro di Kara Walker o di Lorna Simpson. Peccato.
La mostra ha un formidabile ed indimenticabile colonna sonora, organizzata sala per sala. Una mostra tutta da ascoltare direi. Sono coinvolti tutti gli aspetti di circa trent'anni di Black Music. Da Nina Simone a Curtis Mayfield, da Aretha Franklin a Marvin Gaye, da John Coltrane ad Archie Shepp, e tanti altri.
L'universo Afro-Americano di oggi ha le sue proprie ossessioni consumiste (prima di tutte i capelli, sia per lui che per lei), le sue musiche (il Soul e il Rap principalmemte), le sue riviste (Ebony) e i suoi eroi (Martin Luther King naturalmente e tanti sportivi di alto livello). A volte sembra quasi bastare a sè stesso e l'espressione "Black Power" suona come archeologia mediatica. E' stata proprio la musica, assieme allo sport, il passepartout che ha consentito (almeno parzialmente) di far dialogare e convivere le diverse anime dell'America. In apparenza una ricetta semplice e ideale. Che ha richiesto però molto tempo, impegno, talento, e mediazioni. E sappiamo tutti che non è ancora finita.
Suggerimento: oltre all'impegnativo catalogo della mostra vale la pena di leggere anche il bellissimo "Black Art and Culture in the 20th Century" di Richard J. Powell.
Soul of a Nation: Art in the Age of Black Power
Tate Modern
Southbank, Londra SE1
fino al 22 di Ottobre 2017