L'ARTE È BONA, ANZI BONAMI - ''L’ARTISTA ITALIANO È RIMASTO UN SARTO, MENTRE IL MONDO CERCA STILISTI. IL RAPPORTO CON L’OPERA D’ARTE È RIMASTO QUELLO DEL SARTO CON IL SUO CLIENTE: DOPO LA PROVA SI VA A PRENDERE IL CAFFÈ. IL GRANDE ARTISTA NON PRENDE MAI IL CAFFÈ CON LE PROPRIE OPERE D’ARTE'' - E PURE SU CATTELAN HA QUALCHE RISERVA: ''SARÒ PER SEMPRE LEGATO A LUI, MA PREFERIVO IL CATTELAN PIÙ MISTERIOSO, QUELLO CHE SI FACEVA INTERPRETARE DA ALTRI. OGGI INTERPRETA SÉ STESSO E QUESTO A VOLTE È PERICOLOSO, PERCHÉ…''
Giulia Ronchi per www.esquire.it
Erano gli anni Ottanta quando, a Firenze, un giovane ragazzo voleva “fare l’artista”. E ci stava riuscendo - così almeno pareva in un primo momento - frequentando l’Accademia di Belle Arti e cominciando una carriera di pittore, che poco dopo sarebbe andata incontro al fallimento. Sì, perché erano gli anni Ottanta, e il mondo, soprattutto quello dell’arte, stava cambiando enormemente il suo volto: le mostre di tele astratte delle piccole gallerie, quelle ancora un po’ “fatte in casa”, sarebbero state presto rimpiazzate da lavori monumentali di artisti superstar.
Sorprendenti o scandalose, tali opere furono messe in risalto da una cornice fatta di mostre roboanti, eventi patinati, strategici lanci da piano marketing, prezzi record e titoli sensazionalistici che ne davano notizia sui giornali. L’arte contemporanea era diventata un prodotto, figlia della pubblicità e del marketing, pilotato da un sistema che stava affilando sempre meglio le sue armi.
FRANCESCO BONAMI L ARTE NEL CESSO
Per il giovane Francesco Bonami, la svolta giunge quando si decide di trasferirsi definitivamente sul suolo a stelle e a strisce, lavorando come corrispondente estero da New York per una delle riviste d’arte più significative di sempre: Flash Art. Da qui si aprono le danze, e Bonami capisce che la sua strada è quella di raccontare gli artisti e interpretarli: dando così olio ai delicati ingranaggi dell’arte contemporanea, scoperchiando un enorme, imprevedibile vaso di Pandora, che ha saputo mettere sul piedistallo.
Come Damien Hirst, l’artista dello “squalo da due milioni di dollari” sotto formaldeide, autore di una mostra nel 2017 a Venezia da cui è nato un discusso fake documentary visibile su Netflix; oppure Maurizio Cattelan, l’artista delle grandi burle (dal “dito medio” di Piazza Affari al suo gallerista Massimo De Carlo, appeso al muro con del nastro adesivo). Infine Jeff Koons, tra gli artisti più ricchi al mondo, il lezioso re del kitsch, o camp, americano (i palloncini a forma di cagnolino sono il suo must) di cui Bonami ha curato la prima retrospettiva a Chicago.
Oggi Francesco Bonami spicca per essere una delle poche figure italiane a detenere un ruolo notevole nel panorama internazionale. Tra i tanti momenti di gloria, arriva nel 2003 la nomina a direttore della Biennale di Venezia, che intitola La dittatura dello spettatore: il visitatore è diventato parte integrante dell’opera, di una manifestazione che, tra plausi e polemiche, era stata pensata per essere inclusiva e comprensibile a tutti. Una dichiarazione della volontà di far entrare, una volta per tutte, il grande pubblico nell’arte contemporanea.
Comincia quindi a farlo con le sue provocatorie esternazioni. La frase più pronunciata nei musei di arte contemporanea, “lo potevo fare anch’io” è divenuta l’ironico titolo di uno dei suoi libri più venduti, in cui racconta come dietro a un’opera apparentemente banale, si possa celare un coacervo di storie, passioni, idee. Rifiutando formule accademiche, ha spiegato la contemporaneità in modo semplice, rivolgendosi proprio a coloro che la domenica storcono il naso davanti alle opere più “incomprensibili”, gridando alla truffa di fronte agli incassi milionari delle grandi aste.
Potevo farlo anch’io è diventato anche il nome di un programma con Alessandro Cattelan per SkyArte, il primo passo di un riuscito Bonami televisivo: tra le sue apparizioni, memorabile è diventata la puntata de Il Testimone per Mtv, docu-spettacolo diretto da Pif, oltre alla sua tendina del 2015 e 2016 nel programma Quelli che il calcio, in cui, con la sagacia che mai lo abbandona, presentava “opere brutte” situate nelle principali città italiane.
patrizia-sandretto francesco bonami e opera di cattelan
La sua persona è diventata personaggio con l’accrescersi della fama (e delle dimensioni): nell’edizione di quest’anno di Frieze Art Fair, all’ingresso della fiera d’arte del mondo londinese, le sue sembianze erano ritratte in un’enorme statua di cera di Urs Fisher, una vera e propria candela pronta ad essere accesa. Recentemente, alla Luxembourg & Dayan, una delle gallerie più prestigiose di Londra, ha inaugurato Sublime Hardware. Lo abbiamo incontrato in questa situazione, e - sempre senza peli sulla lingua - ci ha detto che ne pensa della situazione artistica oggi.
La sua carriera è decollata a New York, dove ha iniziato come corrispondente estero di Flash Art. Una perfetta realizzazione dell’american dream! Quali sono secondo lei le carte giuste per affermarsi oggi in un ambiente così stimolante e ampio come quello artistico newyorkese (e non solo)?
Prima di tutto avere una vagonata di fortuna. Secondo, immergersi completamente nel mondo in cui ci siamo tuffati. Detto questo, rimane complicatissimo affermarsi, e se non succede non è sempre colpa nostra (anche se spesso lo è).
Il curatore d’arte, su cui lei ha scritto molto, è una figura piuttosto nuova, affermatasi negli ultimi decenni. Oggi si può considerare davvero un mestiere?
No, è un lavoro inventato che infatti tutti pensano di potere fare, e a volte lo fanno davvero. Anche con conseguenze disastrose per la retina dello spettatore…
Da Lo potevo fare anch’io, Dopotutto non è brutto, Mamma voglio fare l’artista fino al recente L’arte nel cesso: le sue pubblicazioni non hanno mai abbandonato uno stile di scrittura scorrevole e ironico, caratteristiche non comuni per un critico d’arte. Perché ha scelto proprio questa modalità per parlare di arte contemporanea?
Perché altrimenti è inutile parlare di arte. Scrivere per gli “addetti ai lavori”, come fanno spesso molti miei colleghi, è per me inutile. L’idea che invece quello che uno scrive arrivi ad un numero di lettori più ampio è per me più stimolante. Credo inoltre che l’arte sia veramente importante nella vita di un individuo, a prescindere da quale sia la sua relazione con questa.
Ha lavorato a lungo con Maurizio Cattelan, l’artista italiano più affermato e irriverente di cui ha scritto anche una “autobiografia non autorizzata”. Come è stato rapportarsi con lui? Pensa che vi siate contaminati in qualche modo?
Cattelan è stato un artista molto importante per me, assieme a Rudolf Stingel. Abbiamo condiviso l’avventura americana, le difficoltà e i successi. Questo mi lega a loro ancora oggi, a prescindere dal lavoro che facciamo assieme. Non so se si possa parlare di contaminazione, ma certo lo scambio che abbiamo avuto nel corso di trent’anni è stato eccezionale. In tutta onestà, preferivo il Cattelan più misterioso, quello che si faceva interpretare da altri. Oggi interpreta sé stesso e questo a volte è pericoloso, perché interpretando noi stessi c’è sempre il rischio che il nostro personaggio diventi una parodia.
Nel libro Lo potevo fare anch’io la risposta che arriva è “ma qualcuno l’ha fatto prima di te!”. La diffidenza è sempre dietro l’angolo. Perché in Italia in particolare è così difficile (o almeno lo era fino a poco tempo fa) far comunicare il grande pubblico con l’arte contemporanea?
Un po’ per un giusto sospetto causato da molti artisti che parlano solo al mondo dell’arte e degli esperti. Un po’ per mancanza di vere belle mostre sull’arte contemporanea. Siamo intossicati da overdose di Van Gogh, Monet, Impressionismo, Picasso, Frida Kahlo e Warhol. Il pubblico non riesce ad abituarsi a cose diverse. Mancano musei capaci di fare un profondo lavoro di divulgazione sull’arte dei nostri tempi.
All’ingresso dell’ultima edizione 2018 di Frieze Art Fair di Londra capeggiava la sua effigie: mi riferisco a Francesco, la gigante scultura in cera, realizzata dall’artista Urs Fisher. Che effetto le ha fatto, vedersi immortalato nell’atto di controllare il suo smartphone? Com’è nata l’idea di questo lavoro?
È nata dal progetto che abbiamo fatto con Urs Fischer a Firenze in Piazza della Signoria dove, grazie al coraggio del Sindaco Nardella, assieme alla Biennale dell’Antiquariato, abbiamo presentato tre sculture di Fischer. Una monumentale astratta al centro della piazza, odiata dai fiorentini, e due sull’arengario, la zona davanti a Palazzo Vecchio. Una era la mia e l’altra quella di Fabrizio Moretti, presidente della Biennale: due comuni personaggi toscani. Per me, nato dietro l’angolo a Firenze, è stato davvero un onore e un’emozione vedermi lì. Fischer però, quasi per punizione, mi ha messo di spalle alla piazza a guardare il telefonino. Un piccolo monumento alla distrazione al presente e all’indifferenza alla storia del mondo in cui viviamo oggi.
mostra curata da bonami alla luxembour e dayan di londra
Alla galleria Luxembourg & Dayan di Londra ha appena inaugurato la mostra, da lei curata, su due nomi di artisti storicizzati, Dan Flavin e Pino Pascali. Che connessione ha trovato tra i lavori di questi due artisti, che eppure impiegano materiali così diversi?
Credo che dalla metà degli anni 60 molti artisti abbiamo avuto questo grande dibattito interiore, tra il desiderio di essere semplicemente artisti ed essere al tempo stesso provocatori contemporanei. C’è stata questa costante ricerca di come superare la pittura pur rimanendo pittori. Credo che Pascali possa rappresentare l’artista figurativo e Flavin quello astratto. Uno di fronte all’altro. Uno, cercando la figurazione nel gioco e nel bricolage, l’altro alla ricerca dell’astrazione, attraverso la luce artificiale. Tutti e due lottano per essere sia artificiali che naturali al tempo stesso. Per questo credo che assieme funzionino bene. C’è qualcosa di eroico e fallimentare nella loro arte che mi ha affascinato.
Cosa ne pensa della presenza di artisti italiani sul mercato internazionale? Continueranno a capeggiare i soliti nomi post-war o pensa che si riusciranno ad aprire alcune porte anche ai più giovani?
Da anni mi arrovello per capire qual è il problema degli artisti italiani che sono arrivati dopo l’arte povera. Perché sono incapaci di esprimere idee che travalichino la porta dei loro studi. Non è questione di provincialismo - è molto bello essere provinciali e non globalisti assatanati - ma tuttavia l’artista italiano è ancora vittima di un cocktail fatto di umanesimo, artigianato e buon gusto. L’artista italiano è rimasto un sarto, mentre il mondo cerca stilisti. Il rapporto con l’opera d’arte è rimasto quello del sarto con il suo cliente: dopo la prova si va a prendere il caffè. Il grande artista non prende mai il caffè con le proprie opere d’arte.
francesco bonamifrancesco bonami su cattelani murales di cattelan con marina abramovic 3i murales di cattelan con marina abramovic 2cattelan cattelan