IL “DELIRIO PARANOICO” DI IBRA – DOTTO MASSACRA ZLATAN: "IL DEBUTTO, IERI SERA, PEGGIORE DELLE PEGGIORI ASPETTATIVE. UN INCUBO. DA QUANDO, PER SUA AMMISSIONE, SI È IDENTIFICATO IN MASSIMO DECIMO MERIDIO, DOPO AVER VISTO AL CINEMA "IL GLADIATORE", IBRA È PRESO DAL SUO DOPPIO MITOLOGICO. HA FATTO CAPIRE IERI DI SENTIRSI PRONTO PER ZLATANIZZARE L’ITALIA. DAREI TUTTI GLI ZLATAN DI QUESTA PER VEDER SBUCARE SUL PALCO DELL’ARISTON..." - VIDEO
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
Magari scopriamo che Zlatan è un animale da palcoscenico, che canta come un usignolo e che il suo compare Sinisa ha le note scure e trascinanti dello Springsteen sotto il diluvio a San Siro ma, per ora, c’è solo fastidio latente. I motivi non mancano. Prima cosa, mi scassa l’anima, di qualunque Sanremo e di questo in particolare, l’idea della missione salvifica.
Che per cinque sere debba sbucare dal suo nulla infiorato e trastullare gli italiani, distrarli dal loro schifo di vita, di questi tempi, figuriamoci, il mostro pandemico. Mi disturbano i musi lacrimevoli e i nasi umidi di chi, gemellandosi, dice: “Dobbiamo aiutare il Paese a dimenticare…”.
Davvero non lo sentite l’odore fetente del cane bagnato che si crede unto? Il lezzo demagogico dei circenses donati alla plebe in mancanza di meglio? Che buca le fessurine cerimoniose del bravo Amadeus e cola su tutti noi assenti finalmente giustificati? In quanto allo straordinario Fiorello, diventerà realmente straordinario il giorno in cui inietterà nel suo talento di intrattenitore una piccola dose di malvagità. Noi ci ostiniamo a sperare, chissà, già da questo Sanremo.
L’altra cosa, ancora meno sopportabile di aver visto Kim Basinger invecchiare, è l’eterna genuflessione di questo disperante Paese, disperante non perché disperato ma perché mai abbastanza consapevole della sua grandezza, nei confronti della star straniera di turno.
Che arriva, strapagata, molla un apatico ruttino, non fa nulla per dissimulare il tedio e se ne va, scocciata e bonificata. Ve li ricordate De Niro e Travolta? Brutta storia. Il loro umiliante non restituire nemmeno una ciotola in cambio del check milionario? O la belva firmata Versace, alias Mike Tyson in versione Frankenstein, lo stesso barcollante passo d’automa, lo sguardo vitreo, i dentoni radi, la voce querula, al guinzaglio, tatuaggio Maori incluso, di un Bonolis che non gli pareva vero d’interrogarlo, palparlo, abbracciarlo, il disadattato di Brooklyn, e farlo sbraitare due note di “Volare”, senza nemmeno il rischio di vedersi sbranare un orecchio. Illanguidito, Iron Man, da un assegno a cinque zeri.
Bei tempi o no, comunque tempi andati. Nel Sanremo iniziato ieri, ci tocca genufletterci adoranti questa volta ai piedoni di Zlatan Ibrahimovic, ospite fisso all’Ariston. I “piccioli” scarseggiano, le casse sono vuote, e ci si deve ridimensionare, ma restano i dubbi e qualche domanda. La più diffusa è anche la più semplice: perché? Le sue parole di ieri in conferenza stampa non aiutano. In certi momenti hanno toccato punte di involontaria comicità, come quando ci ha fatto sapere che lo fa, questo Sanremo, “perché voglio dare indietro all’Italia qualcosa che non sia il calcio”, aggiungendo “quando ho capito che per voi è la cosa più importante”.
Due frasi, un capolavoro, immagino inconsapevole, che ci relega nella parte degli straccioni a cui il munifico Zlatan sta per donare l’osso. Il debutto, ieri sera, peggiore delle peggiori aspettative. Un incubo. Senza senso, o troppo carico di senso. Non riempiti e vivificati dallo sguardo della gente, Zlatan e Amadeus erano due gusci vuoti. Due marionette parlanti assediate dal vuoto beckettiano dell’Ariston. Patetiche e scolastiche le loro gag. Più che una spalla, Amadeus era una stampella che arrancava nel deserto senza cintura di protezione.
Il fatto è che da quando, per sua ammissione, si è identificato in Massimo Decimo Meridio, dopo aver visto al cinema Il gladiatore, Ibra è totalmente preso dal suo doppio mitologico. Iniziato come divertimento, è diventato nel tempo un delirio paranoico, solfeggiato da sibili e smorfie tra il cobra e lo sparviero. “Al mio segnale scatenate l’inferno”. Non lo dice, forse, ma i compagni se lo aspettano e, da ieri sera, ce lo aspettiamo anche noi. Dopo aver zlatanizzato il Milan, i tifosi e Pioli, Ibra ha fatto capire ieri di sentirsi pronto per zlatanizzare l’Italia.
L’aver incrociato nel suo cammino quell’altro mastodonte egoico di Josè Mourinho non ha giovato. Uno che dialoga abitualmente con Dio. “Dio mi vuole bene, lo dimostra ogni giorno con i fatti”, ha detto Josè, ma forse era Zlatan. Si attende quanto prima, forse proprio a Sanremo, colpo di scena, un’esibizione congiunta dei tre. Per ora si sa che Zlatan e il suo amico Sinisa canteranno “Io Vagabondo”, un modo brutale di rivoltare nella tomba Augusto Daolio.
Che c’entrano Zlatan e Sinisa con l’anima imperiosamente latina di Sanremo? Per fortuna, ci sono Ornella Vanoni e Orietta Berti. La grandiosa Ornella, che ha ormai fissa, stampata, la maschera malandrina di chi ha appena ingoiato e digerito Titti, sapendosi impunita per definizione, la felicità bambina di sputtanarsi appena può senza le remore divistiche di certe sue colleghe che si sono date l’invisibilità.
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L’altra cosa insostenibile è che se dici pubblicamente, e qui lo dico e non lo nego, che piuttosto del duetto canoro dei due calciatori, avresti apprezzato molto, ma molto di più, un premio alla carriera a Peppino di Capri, vanno subito a indagare, i coglioni sempreverdi, la tua scheda anagrafica e ti danno del passatista, un esule di nostalgia canaglia. Come se il “Grazie dei fiori” di Nilla Pizzi, nel suo assurdo nonsense, non fosse invece una delle cose più moderne mai apparse a Sanremo.
La matrice di cui Battisti e Mogol sono l’evoluzione naturale. Dello stesso Zucchero, quando non era ancora il Joe Cocker della Bassa. Grati comunque a Mietta e a Amedeo Minghi, al loro trottolino amoroso dudu dadadà, coniato da quel genio di Pasquale Panella.
Insomma, lo dico, darei tutti gli Zlatan di questa terra (e qui Zlatan, di sicuro, mi querela per aver solo ipotizzato che ce ne siano altri) per veder sbucare a sorpresa sul palco dell’Ariston il contadino dalle tonsille d’acciaio, alias Al Bano, con il suo trattore, cantando a ugola spianata “quando il sole tornerà e nel sole io verrò da te”, Romina Power sulle sue ginocchia. Don Backy e Johnny Dorelli, a scelta, invece di Zlatan e Sinisa, che cantano insieme l’Immensità. O, il massimo, Lucio Dalla che si rifà vivo dalla sua stanza dei giochi per cantare il suo Gesù Bambino
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Per tutto il resto, vale l’invettiva sempre attuale di Mina: “Datemi un’ascia comanche per spaccare il video”.
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