MARADONA, IL PEGGIOR NEMICO DI SE’ STESSO – DOTTO: "ERA IL DIO DEL CALCIO ED ERA QUEL SUBLIME AVANZO UMANO, STORDITO DA DROGHE E ALCOL, CHE UN GIORNO SPARÒ AI GIORNALISTI, CHE DEVASTAVA ALBERGHI E SI SCAGLIAVA CONTRO I POTENTI, DA BUSH A BLATTER. I GUAI COL FISCO, LE NOTTI IN GUARDINA, LE CORSE IN AMBULANZA, LE AMICIZIE PERICOLOSE, LA COCA. PROTEGGERLO DA SE STESSO? IMPOSSIBILE. HA FREGATO I MEDICI E QUELLI, INCLUSI NOI, CHE SI OSTINAVANO A VOLEVO VIVO" – QUANDO NARCOTIZZO’ BRANCO A ITALIA ’90 CON UNA BORRACCIA AVVELENATA… - VIDEO
Giancarlo Dotto per il Corriere della Sport
Alla fine ce l’ha fatta. Lui moriva a ripetizione, tre, quattro, cinque volte, e i medici ogni volta lo tenevano in vita. Curvi sul suo strematissimo cuore, a lavorarlo di bisturi, o sulla sua enorme pancia dove ha stipato tutta la sua enorme vita, schifezze e cose sublimi. Cercava la morte in modo anche fantasioso, un genio anche qui, una volta facendosi mordere in faccia dal suo cane.
Operato, ricoverato e salvato. Il suo ascensore ha toccato paradisi reali e artificiali ma, da diversi anni in qua, puntava spedito all’inferno. “Il peggior nemico di se stesso”, secondo Emir Kusturica, l’amico che ne ha filmato la grandezza, la miseria e la follia.
I suoi eccessi hanno riempito per quarant’anni le nostre vite e, ora che non c’è più, sappiamo che ha vissuto anche per noi. Eccessi da raccontare, non da giudicare. A farne l’indico analitico non basterebbe una pagina. Quando calciava era dio, quando si ammazzava era il demone, quando cantava era un usignolo, a tavola era un orco, quando mangiava e quando straparlava, da allenatore era uno sciamano e un pazzo disforico, da tifoso un matto col botto. Un invasato.
diego armando maradona alza la coppa del mondo nel 1986
Ha rischiato di morire anche in tribuna, a tifare la sua Argentina, l’amico grassone che si aggrappava alla grande pancia di Diego per impedirgli di prendere il volo e la sera la notizia che fosse morto. Ma Diego non moriva, tutt’al più mancava, sveniva, collassava. E nessuno, anche adesso, ci crede davvero alla storia che sia morto.
diego armando maradona mondiali 1994
Gli piaceva avere le folle ai suoi piedi e, qualora fosse davvero morto, continuerà ad averle. Lui che di piede ne aveva solo uno, ma che enormità, enorme anche il cabezon sul tronco da nano. Questo maniaco della palla. Uno che somigliava agli antropofagi mozzati di Shakespeare, la testa sotto le spalle.
matrimonio di diego armando maradona con claudia villafane
Era già estremo a nove anni, Diego. Lui in un campo sterrato, il frangettone, magro come un chiodo, che recitava a memoria le sue ambizioni, già realizzate prima di sognarle: giocare un mondiale e vincerlo. Fatto. Strafatto.
Eccessivo sempre, Diego è stato un uomo felice finché ha avuto una palla tra i piedi. Un talento barbaro e poi barbaro e basta. Uno che si tatua Che Guevara sul braccio e Fidel Castro sul polpaccio, per morire poi il suo stesso giorno, lo stesso di George Best. Anche la maglia un eccesso. Lui come Pelè. Non ha avuto altra maglia che la numero 10. Quella rossa, taglia small, dell’Argentino Juniors e la scritta “Usar agua fria e jabonar suavemente”, quelle del Boca, del Barcellona, del Napoli, del Siviglia, della Nazionale argentina.
diego armando maradona con la coppa del mondo
Abbiamo passato tutta la vita a chiederci se Maradona fosse meglio di Pelè e di Messi, quando bastava solo sapere che era unico. Mondiale 1986, Inghilterra. L’uomo che ha inventato il gol del secolo e la truffa del secolo nella stessa partita, da quel giorno amato anche da irlandesi e scozzesi. L’uomo che gli hanno fatto il museo itinerante da vivo. Eccessivo anche questo, in mezzo a tutte le reliquie di Napoli, il cravattino di seta rossa di Freddie Mercury, le t-shirt di Bono e Juantorena, il casco di Schumacher, il pugnale d’oro degli sceicchi che, per un’amichevole, lo pagarono 250 mila dollari, 2777 dollari per ogni minuto giocato.
l ultima immagine di diego armando maradona in ospedale
Era il dio del calcio, Maradona, ed era quel sublime avanzo umano, stordito da droghe e alcol, a caccia ovunque di euro e di dollari, che sparava la faccia allucinata alle telecamere e un giorno sparò davvero ai giornalisti con un fucile a pallini come fossero piccioni. Che devastava alberghi quando già si parlava di necrosi al cervello e si scagliava contro i potenti, da Bush ad Havelange e Blatter. I guai col fisco, le notti in guardina, le corse disperate in ambulanza, ricoverato più volte in terapia intensiva.
La decadenza di Diego non è mai stata un lussuoso boulevard al tramonto, la cosmetica ridondante delle vite da star, ma scene domestiche o di suburra, spesso pornografiche per l’insieme di squallore e apatia.
diego armando maradona il 5 maggio 1985
Proteggerlo da se stesso? Impossibile. La strada era segnata. E anche il verso. Un suicidio distillato negli anni. Maradonesco. Più sfarzoso di una palla brutale in testa alla Cesare Pavese. Una sfilza di prodezze nel teatro dell’autodistruzione.
L’ultimo Diego. La disfatta. Quel balletto debosciato, rubato a casa sua da uno dei tanti che si spacciavano amici, Diego in ciabatte e canotta, perso, ubriaco, allacciato come un vecchio orango alla sua poco affabile bionda. Lui che mostra il suo sedere molle al mondo, non avendo più nulla da mostrare e nessuno da dribblare. Nemmeno se stesso.
MARADONA FISCHIATO ALL OLIMPICO
Lui disperso, memorie sparse. Napoli, la sua città. La città degli eccessi. Unica come lui. Dove truccano i cadaveri come fossero bambole. La sera del suo arrivo con Ferlaino, la cena a Capri, lui che seminato il panico ordinando al maitre del “Quisisana” la pasta con il tartufo. E tutti a inventarsi un tartufo che non c’era. Quanto diverso e quanto uguale quel Diego, gonfio come una rana, che salì un giorno caracollando le scalette dell’aereo per raggiungere il suo amico Fidel Castro a Cuba, non sapendo ancora se a salvarsi o a dannarsi. Napoli che sa amare e dannare. Le amicizie pericolose. La cocaina, l’altro inferno truccato da estasi. Moggi che lo va a recuperare da una notte molto viziosa per trasferirlo a Mosca con un aereo privato e lasciarlo in panchina ottanta minuti per punizione a patire il freddo.
DIEGO ARMANDO MARADONA NEL DOCUMENTARIO DI KUSTURICA
Diego che fa sapere, quattordici anni dopo i mondiali del ‘90, Argentina-Brasile, d’aver messo non so quanti roipnol, un potente narcotico, nella borraccia generosamente offerta al boccheggiante Branco, che da lì in poi si trascina come una larva per il campo e il suo tenuto sinistro diventa una cicca spenta, un fucile a tappo.
Lo dice il Vangelo, dare da bere agli assetati è uno dei sette tipi di elemosina corporale, ma Diego non aveva letto il Vangelo. Diego, lo scandalo permanente. Il suo matrimonio con Claudia in una Buenos Aires torturata dalla crisi economica, l’ostentazione sfrenata di macchine, vestiti e anelli grandi come meloni. Insieme ai fiori e ai confetti, volarono sputi e pomodori marci verso gli sposi. Maradona che dice di sé: “Sono più famoso del Papa”.
DIEGO ARMANDO MARADONA NEL DOCUMENTARIO DI KUSTURICA 3
Maradona che finisce come Buffalo Bill ad allenare squadre improbabili, dopo aver allenato la sua Argentina. Quel giorno che si presentò in panchina, mondiali in Sudafrica, con l’abito delle nozze, perché disse che gli portava fortuna.
Non gli portò fortuna. Diego come una rockstar. Che muore come Elvis ingozzandosi di tutto, con tutta quella carne addosso. Diego e le tante donne, i tanti figli, non si sa quanti, riconosciuti e mai conosciuti. Diego a cinquantasei anni, il cuore già grosso come quello di un bufalo e il cervello bruciato dalla cosa che si rifà il viso e le labbra per somigliare da vivo a una bambola, prima che ci pensassero da morto i suoi amici napoletani. Diego che sibila “Hijios de Puta” agli italiani che lo fischiano e non ha mai smesso di amare i napoletani che lo amano. E tanto altro. Troppo altro.
DIEGO ARMANDO MARADONA NEL DOCUMENTARIO DI KUSTURICA 2
Ora può unirsi a Carlos Gardel ed a Evita Peron, la trinità laica della sua terra. Finalmente, è riuscito a fregare i medici e tutti quelli, inclusi noi, che si ostinavano a volevo vivo.
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