CALCIO DOTTO - "QUASI INVISIBILE AL MILAN PER NON GUASTARE L’ONNIPOTENZA DI RE SILVIO, IL FURBISSIMO ALLEGRI NELLA CASA DEGLI AGNELLI SI E’ TRASFORMATO IN UN CONTE AL QUADRATO. SE LUI E’ L’ETERNA ARTE DI ARRANGIARSI, SPALLETTI E’ UN ALCHEMISTA FOLLE CHE SE NE FOTTE DI ADEGUARSI. L'ULTIMO SUO ESPERIMENTO? RUBARE L'ANIMA JUVENTINA..." - VIDEO
Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
Avendoci scarsa dimestichezza sulle dispute da Vernacoliere tra toscani che praticano le triglie da scoglio piuttosto che le galline del Cioni, provo a dire la mia sul ring che sabato sera metterà l’uno contro l’altro il livornese Max Allegri e il certaldese Lucio Spalletti, di là del folclore, ma dentro la fisica molecolare dei due quanto mai diversi ceffi.
Sotto e dentro l’apparenza di quella voce un po’ da grullo e un’espressività molto satura di zanne che quasi mai si scolla dallo zero e dal vacuo (senza mai un sano horror che la riscatti), Max Allegri è invece un uomo bertoldianamente furbissimo dove, più che il cervello, molto fini sono casomai le scarpe che lo portano ovunque, in qualunque territorio, che sia quello della vanitas berlusconiana o quello del Fiat voluntas mea, a rapidissimi passi e altrettanto rapidi adeguamenti.
Max capisce subito bene dove e come collocare le sue scarpe.
Si chiama adattamento. Una delle grandi virtù, forse la principale, degli umani, specchiata al suo massimo nelle funamboliche traiettorie di Zelig. Silente, discreto, quasi invisibile nel sultanato di Milanello, da coniglietto spaurito diventa in brevissimo tempo una cazzutissima iena in terra juventina, dove vincere è un tediosissimo dovere ancora prima che un eventuale piacere, e perdere, sì perdere, concetto inascoltabile, equivale alla lebbra più schifosa.
Max, che di Conte ha solo Antonio, ovvero il suo predecessore oltre che ispiratore, ci mette meno di un frem a diventare l’incarnazione del furore che si straccia le vesti, anche quando, soprattutto quando, vinci quattro a zero a due minuti dalla fine (il sospetto è che si sia dotato anche di un qualche tutore per impostare e centrare la voce in funzione di una comunicazione gladiatoria; se non è così, complimenti all’autodidatta).
Nella sua mimesi contiana, per eccesso di zelo imitativo, l’ottimo Max diventa un Conte al quadrato, sino a sfiorare il grottesco, non fosse che il calcio non conosce il grottesco, anzi lo celebra chiamandolo sotto mentito nome. La Juventus, questa Juventus, non ha mai smesso di essere la Juventus di Conte.
Allegri è stato abilissimo a ricalcare l’impronta originale mettendoci la sua, con i dovuti accorgimenti, di silhouette. Allegri è onesto, oltre che furbo (che, l’essere onesti, è il non plus ultra della furbizia). Conosce i suoi limiti, sa quando si tratta di non presentarsi all’altare per onestissima e manifesta insufficienza al ruolo (ci sono territori in cui l’arte mimetica non basta), sa di non essere un genio e non pretende di sembrarlo. A lui basta e avanza farla franca, rispetto a ciò che, di volta in volta, è l’obiettivo. Non guastare l’onnipotenza di Re Silvio al Milan, vincere nella casa degli Agnelli. Vincere comunque.
Chi se ne fotte del brusìo del mondo. A rendere più piccante oltre che promiscua tutta la faccenda si aggiunga che il Max in questione, tre stagioni fa, prima dell’arrivo di Rudi Garcia, aveva già sottoscritto un pre-contratto con la Roma, prima di scivolare pragmaticamente nel più robusto abbraccio bianconero.
ALLEGRI DURANTE INTER JUVENTUS
Tutt’altra storia, decisamente più eccitante, quella di Lucio Spalletti. Lui è intelligenza pura, con lampi sempre più evidenti di genio misto a orgoglio. Più luciferino che furbo, non arretra nella parola e nel gesto anche laddove l’autolesionismo è garantito. Se Allegri è l’eterna arte dell’arrangiarsi da matrice italiota, Spalletti è pura mania, extra omnes. Mai dentro le righe, sempre fuori, nello spartito delle sue ossessioni. La principale: fare del calcio, ovvero lo sport collettivo con la più alta percentuale di casualità, una scienza esatta. Spalletti se ne fotte di piacere e se ne fotte di adeguarsi. Spalletti ha la postura dell’alchimista folle. La lunga divagazione a San Pietroburgo lo ha restituito, nello sguardo oltre che nella febbre, parente stretto di Rasputin.
Manipolatore, nel senso migliore possibile, delle coscienze altrui, chiamate continuamente alle armi, non tanto per un’ottusa e illimitata pretesa di vittoria, quanto nell’ottica del samurai, vale a dire la scrittura puntigliosa e dignitosa, meglio ancora se eroica, della propria biografia. Se il mondo juventino, qua e là variamente interpretato, sollecita la fedeltà a una storia collettiva, quello spallettiano evoca la nobiltà del mito individuale, l’energia grandiosa del singolo votato all’impresa, poco importa se coronata, contro tutto e tutti.
In una cosa sono simili Allegri e Spalletti, uno per eccesso di furbizia, l’altro per eccesso d’intelligenza: rifiutano il dogma. Non si lasciano irretire da nessuna certezza. Allegri non guarda in faccia nessuno. Fa tutto quello che gli serve per vincere. Spalletti guarda in faccia chiunque, uno a uno. Fa tutto quello che gli serve per convincere. La sua ultima spericolata ambizione.
L’ultimo suo esperimento alchemico. Rubare l’anima juventina. Entrare nel suo testo, nel suo segreto e, dopo averlo carpito, farlo proprio e usarlo come arma vincente, nella casa amplificata del più ricco e titolato nemico. Dovesse riuscirci, applausi a non finire. Non dovesse, applausi lo stesso.
ALLEGRIallegri SPALLETTI-TOTTILUCIANO SPALLETTIFAZIO ALLEGRI