FERGUSON FOR PRESIDENT: LABURISTA INCALLITO, BLAIRIANO E VINCENTE - (E’ IL LEADER PERFETTO PER IL PD)

Roberto Beccantini per "Il Fatto Quotidiano"

Non lascia, come papa Ratzinger, la sua "chiesa" spaccata. La lascia campione d'Inghilterra. Alexander Chapman Ferguson, per tutti Alex e dal 20 luglio 1999 addirittura Sir, ha comunicato che a fine stagione non sarà più il manager del Manchester United, la società nel cuore della quale era entrato, in punta di piedi, il 6 novembre 1986.
Scozzese di Glasgow, 72 anni il prossimo 31 dicembre, laburista incallito, amante dei cavalli e del buon vino. Un caso unico. Il più grande di tutti. E anche una statua: quella che il suo popolo gli ha dedicato all'ingresso dell'Old Trafford, il teatro dei sogni. Lo stadio del Manchester Utd.

Pensate: l'ultimo "scudetto" risaliva al 1967, ai tempi dei Beatles e di George Best. A partire dal 1993 Ferguson ne ha vinti 13, compreso l'attuale.
Ha portato lo United a scavalcare il Liverpool (20 a 18); soprattutto, l'ha portato in cima al mondo, terzo fatturato (396 milioni di euro) dietro a Real Madrid (513) e Barcellona (483). Non solo: c'è chi paga 18 milioni a stagione, per otto anni, pur di sponsorizzare il centro tecnico e il kit d'allenamento del club. Soldi, non parole. Eric Cantona lo saluta così: "Potrà nascere un altro Cantona, un altro David Beckham, un altro Ryan Giggs. Mai, però, nascerà un altro Ferguson". In gioventù, era stato attaccante col fiuto del gol.


Fu ad Aberdeen che impugnò la bacchetta. Musica, maestro: tre campionati scozzesi, quattro Coppe nazionali, una Coppa di Lega, una Supercoppa d'Europa e una Coppa delle Coppe. Non ha cambiato il calcio come l'Ajax "totale" di Cruijff, alla cui guida si alternarono Rinus Michels, il fondatore, e poi Stefan Kovacs. E non l'ha cambiato neppure con la scintilla di Arrigo Sacchi o il tiki taka di Pep Guardiola. Ha cambiato il Manchester United, ha aggiornato il rapporto tra società e manager. Ventisei anni e mezzo di fedeltà assoluta: da allenatore a boss, e da boss a simbolo.

Masticando gomma americana, esultando o smoccolando come un ragazzo. Tanto per rendere l'idea: Giovanni Trapattoni fu la Juventus per un decennio (1976-1986), Guardiola ha resistito al Barcellona dal 2008 al 2012, Sacchi al Milan dal 1987 al 1991. Il potere logora chi ce l'ha. Tranne uno.

Già nel 2002 aveva annunciato il ritiro. Sbollito lo stress, si consolò con l'ingaggio di Cristiano Ronaldo , pagato 15 milioni allo Sporting Lisbona e poi rivenduto per 94, record dei record, al Real. "È il momento migliore per passare la mano - ha dichiarato - la struttura è solida, l'età media e le qualità del gruppo sono buone". In estate, si sottoporrà a una delicata operazione al bacino. Insomma: se non ora, quando? Come successore, si parla di David Moyes, scozzese pure lui, 50 anni, mister dell'Everton. Il suo calcio è corale e vibrante, proprio come le ricette di "Fergie".

Naturalmente, gira anche il nome di José Mourinho, in uscita da Madrid per tornare al Chelsea. Non si ricordano giostre così isteriche: Carlo Ancelotti dal Paris Saint-Germain al Real; Guardiola dal Barcellona al Bayern. E Antonio Conte? Ha chiesto rinforzi alla Juventus, tanti rinforzi; nel frattempo, medita. Sono 38 i trofei che, firmati Ferguson, addobbano la sede dello United.

La sua grandezza si può riassumere nella quantità degli scalpi abbinata alla cura del vivaio e alla continuità del gioco. Filo d'Arianna, il numero 7: Bryan Robson, poi Cantona, il primo big bang, quindi Beckham e infine Cristiano Ronaldo. Lo schema di riferimento è stato il 4-4-2. Non fisso, però: duttile, elastico. Ali vecchia maniera (Beckham, Giggs), doppio centravanti (Andy Cole e Dwight Yorke), centravanti classici (Ruud Van Nistelrooy, Robin Van Persie), centravanti tuttocampisti (Wayne Rooney, destinazione Bayern?). Ma anche mastini come Paul In-ce e Roy Keane, nel solco del truce Nobby Stiles.

Ha alzato due Champions, ha raccolto idealmente l'eredità di Matt Busby, l'uomo che risollevò il Manchester United dalla tragedia di Monaco di Baviera (1958). Per la cronaca, sir Alex venne reclutato al posto di Ron Atkinson, quando i diavoli rossi vegetavano alla periferia dell'impero. Si è ispirato a Jock Stein, il Rocco scozzese,e a MarcelloLippi. Di radici operaie, ha sempre lavorato lontano dalla paranoia sacchiana, l'estetismo guardiolesco e i "secoli" brevissimi, ma caldissimi, di Mourinho.

Il suo obiettivo èstatol'equilibrio:nonl'ossessione, e nemmeno la rivoluzione. Qualche volta ha perso la testa, mai la faccia. La scarpa che lanciò verso Beckham, in un momento d'ira funesta, è diventata più famosa di quella persa da Cenerentola. Ha detto di Filippo Inzaghi: "Quel giovanotto dev'essere nato in fuorigioco". E di Arsène Wenger, il guru francese dell'Arsenal: "Parla cinque lingue, e allora? Conosco un ragazzino di 15 anni della Costa d'Avorio che ne parla sei". Pane al pane.

Il 19 maggio, contro il West Bromwich Albion, ultima panchina: dopodiché entrerà nel consiglio del Manchester United e farà l'ambasciatore. Sir Alex sarà per tutti una nobile, scomoda, ombra: se la sfuggi, ti segue; se la segui, ti sfugge.

2- LO SPIN DOCTOR DI BLAIR: "GRAZIE, SIR FERGUSON

Alastair Campbell per "La Repubblica"
Nella vita sono importanti due cose: individuare il momento giusto per vincere e il momento giusto per ritirarsi. Il mio amico Alex Ferguson ha saputo fare bene entrambe le cose. La prima è stata più semplice, perché ha cominciato a vincere un quarto di
secolo fa.

Ha vinto con il Manchester United, e ancora prima, quando guidava l'Aberdeen nel campionato di Scozia, e non ha più smesso di raccogliere trofei, in patria e a livello internazionale, fino a diventare qualcosa di più di un allenatore vincente, entrando nella leggenda del calcio e dello sport.

Capire quando è il momento di ritirarsi è più difficile. Lo sbagliano in tanti, restando al proprio posto più a lungo di quanto sarebbe consigliabile, attraversando un declino che talvolta finisce per mettere in ombra i successi colti in precedenza, chiudendo con l'amaro in bocca.

Non c'è niente di più bello che andarsene da vincitori, osannati, applauditi e già rimpianti, nella certezza che, un altro così, probabilmente non capiterà più. In questo sir Alex mi ricorda Tony Blair, l'uomo che è stato per così dire "allenatore della Gran Bretagna" per dieci anni, e che ho conosciuto bene perché su quella panchina, dietro di lui, c'ero anch'io.

Anche Blair, nonostante le polemiche sulla guerra in Iraq e il conflitto con Gordon Brown all'interno del partito laburista, se ne è andato al momento giusto: imbattuto, con un discorso in parlamento che ha fatto venire le lacrime agli occhi non solo ai membri del suo partito ma pure a quelli dell'opposizione. Blair e Ferguson sono diversi per molti aspetti, ma avendoli frequentati entrambi posso dire che non a caso sono stati entrambi due grandi leader: hanno caratteristiche simili.

Il Ferguson che ho conosciuto in privato non è molto diverso dalla sua immagine pubblica. È la conferma dell'impressione che molti si fanno di lui: un uomo solido, solidale con gli altri, determinato a vincere ad ogni costo, ironico, grande raccontatore di aneddoti, dotato di una memoria eccezionale.

Un uomo onesto, di principio, fedele alla parola data. Ogni tanto arrivavano le sue telefonate, quando lavoravo con Blair a Downing street: era sempre prodigo di consigli e io li accettavo volentieri, perché lo sport ha molto da insegnare alla politica e non solo alla politica.

Una volta, sul bus della campagna elettorale del ‘97, quando ci sentivamo
con la vittoria in tasca, squilla il telefono ed è lui che ci dice: non date nulla per scontato, non abbassate la guardia, cercate di convincere ogni elettore che incontrate, sono i dettagli che costruiscono le vittorie.

Un'altra, mentre erano in corso i difficili negoziati di pace in Irlanda del nord tra cattolici e protestanti, chiamò e disse: mettete gli avversari nella stessa stanza, fateli parlare tra loro, vedrete che si romperà il ghiaccio. E andò proprio così.

Sir Alex ci dava consigli perché è laburista. È nato laburista e lo è restato fino ad oggi. È nato povero, nella classe operaia di Glasgow e i suoi amici più cari sono ancora quelli della giovinezza, gli stessi con cui celebra una vittoria andando a bere una birra al pub, tutti insieme, con le mogli, ridendo e scherzando, come ai vecchi tempi.

Ma è laburista anche adesso che è diventato ricco, molto ricco, grazie al suo lavoro. La scelta non cambia, mi disse una volta: i conservatori proteggono l'élite, il Labour aiuta i lavoratori, la maggioranza. E lui a dispetto dei soldi è questo che si sente: un lavoratore, uno che appartiene alla maggioranza. Uno di noi. Mi dispiace che non ci sarà più lui sulla panchina del Manchester United. Non perché io sia tifoso dei Red Devils: non lo sono. Ma sono tifoso di Alex Ferguson. Non sarà facile sostituirlo.
(testo raccolto da Enrico Franceschini)

 

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