LE CONFESSIONI DEL "PRINCIPINO" - CLAUDIO MARCHISIO RACCONTA I SUOI 25 ANNI CON LA JUVE: “IN ITALIA INDOSSERÒ SOLO QUESTA MAGLIA. ALTROVE NON VADO, PIUTTOSTO SMETTO” - ''CALCIOPOLI PER ME FU UN TRAMPOLINO. SE LA JUVE NON FOSSE FINITA IN SERIE B, SAREI STATO L’ULTIMA DELLE RISERVE" – POI RACCONTA DI UN "LITIGIO DA CINEMA" CON LA MOGLIE E SU BUFFON RIVELA…- VIDEO
Malcom Pagani per Vanity Fair
Sul ponte sventola bandiera bianconera: «Sono entrato nel settore giovanile della Juventus nel 1993 e se escludo una parentesi toscana, all’Empoli, durata una sola stagione, gioco per la stessa squadra da 25 anni. Ne ho ancora 2 di contratto e qualsiasi cosa accada, so che in Italia indosserò soltanto questa maglia. Altrove non vado, piuttosto smetto».
Cominciò a correre da ragazzo e adesso che la cura del proprio corpo è diventata un piacere e non solo un obbligo, i sogni di ieri si sono trasformati in coppe e scudetti che nessuno potrà più togliergli. Claudio Marchisio ha capito che esiste una ragione per ogni cosa: «Sono venuto su in una famiglia in cui il lavoro ha avuto sempre un ruolo decisivo. Vedevo papà tornare a casa molto tardi, portare sul volto i segni della fatica e invecchiare giorno dopo giorno senza mai lamentarsi o perdere la calma. L’idea che il sacrificio porti sempre un risultato viene dall’esempio che mi è stato dato. Ho cercato di seguirlo, anche se all’inizio, da terzo figlio viziatissimo a cui venivano date più o meno tutte vinte, l’istinto di rinunciare a un percorso incerto fu fortissimo».
Come andò?
«Andò che vivevo in un paesino della cintura torinese, facevo 50 chilometri al giorno soltanto per allenarmi e dopo pochi giorni, in una delle crisi adolescenziali che ogni tanto si hanno a quella età, manifestai a mia madre tutto il mio sconforto: “Il campo è lontano, continuando così perderò tutti i miei amici, non sono sicuro di voler continuare”».
E sua madre cosa disse?
«Ribaltò il punto di vista, mi diede tutta la responsabilità della scelta: “aspettiamo un mese, poi se sarai ancora stufo lascerai il calcio”. Dopo tre giorni smisi di lamentarmi e non ci pensai più».
Da dove nasce la passione?
«Forse dalla fortuna di essere nato in un’epoca in cui la realtà virtuale era meno importante. Se oggi vai nei parchi li trovi quasi tutti vuoti. Noi nei parchi, a tirare calci a un pallone, passavamo la giornata intera. Uscivo da scuola, mangiavo in fretta, cercavo di finire di corsa tutti i compiti e poi correvo per strada con gli amici. Ci bastava poco, ma ci sembrava tantissimo».
Cosa rappresentava per lei il calcio da bambino?
«Tutto tranne che un mestiere. Non ho mai pensato al calcio come un’occasione che potesse cambiarmi la vita dal punto di vista economico. Il mio sogno era diventare un calciatore, non diventare ricco. Fino a 18 anni non sapevo neanche cosa fosse uno stipendio. Ero ancora un ragazzino che il sabato sera chiedeva tremila lire a sua madre per mangiare una pizza e infilava il bancomat per ritirare denaro senza controllare le ricevute. Un’estate, progettando una vacanza ligure con un mio amico, mi resi conto che non avevo abbastanza soldi».
E in vacanza non andò?
«Ci andai lo stesso perché mia madre, a mia insaputa, mi aveva fatto bloccare 500 euro al mese dalla banca. Fu una lezione importante, da allora ho imparato a gestirmi meglio».
L’inizio tra i grandi, in prima squadra?
«Se in allenamento toglievi la palla a uno degli “anziani” prendevi calci che ti facevano volare in aria. C’era un po’ di nonnismo e gli allenatori come Capello ti consigliavano pure di tacere: “Sei giovane, non puoi urlare e non puoi lamentarti”. Era normale. Guardavi al contesto e ti sembrava fosse giusto così. “Se vuoi arrivare in alto – pensavo – devi star zitto e pedalare”».
Oggi?
«I giovani forse sono più arroganti o strafottenti, ma hanno molto più coraggio di quanto non ne avessimo noi alla loro età. Forse sono meno rispettosi di ieri e si rifiutano di accettare quello che noi accettavamo senza fiatare, ma la loro ribellione è un segno di vitalità. Noi “vecchi” siamo più buoni di quanto non fossero i “senatori” di un tempo, ma penso sia giusto. Sappiamo quel che abbiamo passato e non vogliamo che lo vivano anche loro».
Raramente la si vede perdere la calma.
«È il mio carattere. A volte vorrei eruttare come un vulcano, ma tengo tutto dentro. Magari somatizzo e poi mi sfogo, ma sempre da solo. Certi spettacoli li tengo per me».
In un quarto di secolo, l’unica deviazione da Torino, per fare esperienza, si chiama Empoli. Che ricordo ha di quella esperienza?
«Fu una scuola di vita importantissima. L’Empoli e il suo direttore sportivo Pino Vitale mi avevano voluto a tutti i costi. Una volta arrivato in provincia, a non farmi montare la testa pensò l’allenatore, Gigi Cagni. Un uomo buono che con me mostrò fin da subito la faccia dura: “Ciccio, tu verrai anche dalla Juve, ma per me non hai fatto ancora niente e devi dimostrare tutto”. Mi fece partire dalla panchina, mi insegnò a difendere, mi aiutò a calarmi nella nuova dimensione».
Lei a Empoli andò con sua moglie. Eravate giovanissimi.
«A Empoli, senza il paracadute delle nostre famiglie, ci conoscemmo veramente. Convivevamo già da tempo, ma a Torino, se litigavamo, potevamo aprire una porta ed evadere da amici o parenti. Lì eravamo soli e avevamo soltanto 21 anni. In questo percorso di crescita, ogni tanto, ci siamo anche scannati. È stato positivo e ha rafforzato l’amore, ma qualche scena da cinema ci fu».
Che scene?
«Un giorno, dopo la partita, avevamo programmato un ritorno a Torino. L’aria – litigavamo dalla sera prima – era quella che era. Iniziammo il viaggio e all’ennesimo diverbio, a una velocità di 50/60 chilometri all’ora, lei aprì la portiera e fece per scendere. Inchiodai, urlai qualcosa, poi fino a La Spezia, anche per la paura, non aprimmo più bocca. Undici anni dopo stiamo ancora insieme».
Quando parlò di Calciopoli, i tifosi della Juve la presero male.
«Ma io non avevo mai detto che ero contento di Calciopoli, né che ringraziavo ci fosse stata. Avevo sostenuto soltanto che era passato un treno e ci ero salito sopra. Se la Juve non fosse finita in serie B per le decisioni dei tribunali, sarei stato l’ultima delle riserve. Scendere di categoria aiutò me e altri ragazzi che forse sarebbero finiti in prestito a farsi strada. Fu un trampolino. Mi tuffai. Ma non ho mai affermato che fosse la piscina più bella del mondo».
roberta sinopoli moglie di marchisio
Era sicuro di farcela ad affermarsi?
«Non sopporto chi per giustificare il proprio fallimento accampa delle scuse. Una volta è colpa della testa, l’altra dell’infortunio, l’altra ancora dell’allenatore cattivo. Non ho mai creduto ai complotti o alla fortuna. Se sei forte, arrivi. Magari arrivi tardi, ma arrivi. Se non ti perdi il talento emerge, un’occasione si presenta a tutti».
Ha mai litigato con un allenatore?
«Mai. Ma se ce l’ho con lui, lo faccio capire dallo sguardo. A inizio stagione non parto mai tra i titolari, ma alla fine mi guadagno sempre il mio spazio. In generale, quando non gioco, mi alleno con più voglia ancora. È una questione di rispetto per i miei compagni e per me stesso».
Quali sono le paure di un giovane uomo?
«Il mondo in cui cresceranno i figli. Sta cambiando, si sta imbarbarendo. Quando ero adolescente mi dicevano “vai fuori e studia l’inglese”. Oggi il fuori mi spaventa. Prenda l’America. Le armi, il razzismo, i conflitti sociali. Forse i figli me li tengo qui, stretti, in un Paese con le sue contraddizioni e i suoi problemi, ma alla fine più umano».
L’Italia non sarà ai Mondiali.
«È l’unico momento in cui l’Italia del tifo non conosce più barriere, la rivalità scompare e ci si abbraccia. Saremo tristi quest’estate e a me dispiace, soprattutto per Gigi Buffon. Lui lo meritava più di tutti».
Tiri la moneta. Buffon si ritira o no?
«Io non glielo chiedo mai, ma secondo me no. Continuerà a giocare».
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