“LA TERAPIA HA BRUCIATO L'ATLETA. SONO SOLO UN ESSERE UMANO” - FRANCESCA SCHIAVONE SI RACCONTA: I SUCCESSI, LA MALATTIA E LA RINASCITA – “LA DOTTORESSA MI HA CHIESTO COSTANZA PER LA CHEMIO. LA DISCIPLINA CHE RICHIEDE VOLER GUARIRE NON L'HO PATITA: ME L'AVEVA GIÀ DATA IL TENNIS" - LA SERENATA PER LA COMPAGNA: “NON HO BISOGNO DI CAMMINARE MANO NELLA MANO CON LEI PER STRADA, MA È LA MIA FORZA TRANQUILLA: HA UN CARATTERE CHE PLACA IL MIO MARE MOSSO”…
Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera”
La prima racchetta, l'alabarda spaziale con cui si è fatta largo nel quartiere Gallaratese e nel tennis, è appesa al muro («Arriverà anche quella con cui ho vinto il Roland Garros a Parigi dieci anni fa»). Disegnate per terra, le righe di un campo («In questi tempi difficili, i clienti credono siano segnali di distanziamento per il Covid»).
Al centro del suo nuovo mondo, un bistrot piccolo e accogliente sul Naviglio grande, a Milano, lei, la donna che visse due volte (o forse anche tre), Francesca Schiavone. I capelli, dopo la malattia, sono ricresciuti, i jeans non le cadono più di dosso, il sorriso è tornato quello di una volta.
Per voltare pagina Francesca si è regalata un libro, «La mia rinascita», perché anche le leonesse cedono al vezzo dell'autobiografia. Che ha il suo linguaggio denso e immaginifico, messo al servizio - come un talento in funzione del risultato sportivo - dei messaggi potenti contenuti in 150 pagine. «Diamo troppe cose per scontate, la malattia invece ti insegna a stare calato nel presente e a goderti ogni istante - racconta davanti a un caffè -. Io ne sono la dimostrazione: se hai un sogno, puoi realizzarlo».
Anche guarire dal linfoma di Hodgkin è un sogno: «La malattia è una galera. Oggi apprezzo il dono della vita. Sono sempre andata a messa, mi ci portava la nonna. Credo in forze superiori a noi e, finita la chemio, mi ero ripromessa di pregare di più. Nella casa in campagna ho libri di psicologia e filosofia: quando diventano complessi mi incasino, vado avanti, torno indietro. Però l'energia dentro di me la sento».
C'è il rischio di commuoversi, parlando con Francesca. Da adolescente era «indecifrabile, oppositiva, scontrosa, ruvida»: «Mi sentivo incompresa». Una sera disperata, dopo una sconfitta in Sicilia, il momento più buio: «Avevo la sensazione di non ripagare i sacrifici che i miei stavano facendo per me. Passai nelle vicinanze di un ponte, pensai: basta un passo. A chi non è capitato? Siamo soli, in campo e nella vita. Forse solo un figlio può colmare questo vuoto».
È cambiata strada facendo; la malattia l'ha aperta come un'ostrica, con dentro la perla. E adesso che ha compiuto 40 anni è bello sentirla dire «io sono amore». Ci spieghi, Franci? «La prima volta l'ho avvertito a Parigi. Avevo passato la mattina a piangere, non volevo giocare la finale. Ma quando sono entrata in campo ero così piena di amore per il presente, per quel che dovevo fare, per la mia vita che mi aveva portata fino a lì, che ne sono stata travolta».
Quello stesso sentimento deborda da un libro che è un atto d'amore nei confronti dei genitori, mamma Luiscita che è stata a sua volta malata («La vera guerriera di famiglia è lei, io al confronto sono un micetto») e papà Franco («Ho preso la sua generosità e l'agilità fisica»). Il passaggio più intimo è Francesca che lava la schiena alla madre appena dimessa dall'ospedale: «Pensai che era bellissimo riappropriarmi di lei, e forse pure di tutto il tempo che non avevamo mai avuto per stare davvero insieme».
C'è un vecchio pianoforte strimpellato con antica passione («Quando tocco i tasti torno indietro nel tempo: un Anelli verticale, ore di solfeggio, pomeriggi interminabili. Ma mi sento libera»), c'è il progetto di ricominciare ad allenare promesse del tennis («Una scuola mi piacerebbe: Corrado Barazzutti dice che sono nata per sporcarmi di terra rossa»), c'è una serenata per Sileni, partner nel bistrot e nella vita («Non ho bisogno di camminare mano nella mano con lei per strada, ma è la mia forza tranquilla: ha un carattere che placa il mio mare mosso»).
C'è, soprattutto, la più bella partita mai vinta. No, non il Roland Garros. «Avevo il cuore allenato dallo sport, le vene hanno ricevuto buchi su buchi ma hanno retto. La dottoressa mi ha chiesto costanza: vieni per la chemio ogni due settimane, prendi la pastiglia, segui la dieta. La disciplina che richiede voler guarire non l'ho patita: me l'aveva già data il tennis. La terapia ha bruciato l'atleta, e sono tornata un essere umano». Credere che tutto sia possibile non è difficile. «Basta volerlo fare».