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GRAFFITI LUNGOTEVERE - DA ROMOLO E REMO A PASOLINI, DA CICERONE A ANNA MAGNANI, KENTRIDGE DISEGNA LA STORIA DI ROMA IN UN FREGIO DI 550 METRI: “SI GUARDA COME UN FILM. TRA 3-4 ANNI SPARIRÀ” - SETTIS: “KENTRIDGE RIESCE A FAR SUSSURRARE ROMA, DA SEMPRE PATRIA DELL’EFFIMERO”

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1 - LUNGOTEVERE KENTRIDGE

Dario Pappalardo per “la Repubblica”

 

William Kentridge è accanto alla sua opera sulla riva destra del lungotevere: «Tutto questo sparirà», dice. Spariranno dai muraglioni di travertino che corrono da Ponte Sisto a Ponte Mazzini i cesari, i soldati romani e i loro prigionieri, Mastroianni e la Ekberg.

 

Triumphs and Laments, l' opera che il grande artista sudafricano vede finalmente realizzata davanti ai suoi occhi, è un fregio di cinquecentocinquanta metri, un' ottantina di figure che sintetizzano millenni di storia. Si inaugura ufficialmente il 21 aprile, ma è pronta già. I turisti fotografano, i biker la costeggiano. «Bravo!», grida uno.

FRANCESCHINI KENTRIDGEFRANCESCHINI KENTRIDGE

 

L' artista risponde sorridente, spalancando gli occhi blu sotto il panama. «Nulla è stato aggiunto alle mura del Tevere. Tutto è stato realizzato pulendo selettivamente lo sporco del tempo». Dal contrasto tra il nero e il bianco emergono le immagini concepite da Kentridge, alte anche dieci metri.

 

«In tre o quattro anni, batteri, vegetazione e inquinamento prevarranno di nuovo. E le immagini sprofonderanno lentamente nell' oscurità. Va bene così. Fa parte del significato di quest' opera. Ha a che fare con la perdita della memoria. Con il senso della storia che cambia. Il presente ogni volta influenza il passato. Io ho messo insieme dei frammenti».

KENTRIDGE LUNGOTEVEREKENTRIDGE LUNGOTEVERE

 

Solitamente le opere d' arte sopravvivono a chi le concepisce. «Questa è troppo grande per restare», precisa Kentridge. «Sarebbe una dichiarazione troppo definitiva di quello che la storia è. E invece una componente importante del progetto è proprio il suo aspetto provvisorio».

 

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Tutto inizia nel 2002. «La curatrice Kristin Jones me ne parlò quindici anni fa. Ma il progetto vero e proprio è partito cinque anni fa. Ce ne sono voluti quattro per ottenere i permessi. Una volta ricevuto l' ok, ho impiegato un anno e mezzo per realizzare i disegni preparatori». La più importante opera d' arte pubblica che Roma conosca dall' inizio del XXI secolo è stata finanziata con contributi privati, a partire dalla vendita dei bozzetti. Nell' opera di Kentridge la street art incontra l' imponenza di una bottega rinascimentale. Qualcuno ha parlato di una Sistina a cielo aperto.

 

«Ma io ho un' opinione diversa», puntualizza l' artista. «È giusto che la Sistina stia lì da cinquecento anni e che il mio lavoro ne duri al massimo cinque». Il "film" di Kentridge che si srotola sulle mura del lungotevere non è in ordine cronologico. Pasolini, la Lupa e Romolo e Remo sono vicini. «Personaggi lontani nel tempo sono come in conversazione tra loro e con chi li guarda. La mia è stata una scelta selettiva personalissima. È la mia idea della storia. Molte persone mi hanno suggerito quali figure dovessero esserci.

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Mi hanno dato consigli, poi ho scelto. Ho studiato i rilievi della Colonna Traiana. Per me sono stati fondamentali. Per la contemporaneità non ho potuto lasciare fuori Aldo Moro. Ricordo le sue fotografie pubblicate sui giornali sudafricani del tempo. Mi è stata raccontata la storia di Giorgiana Masi (la studentessa uccisa da un agente in borghese durante una manifestazione nel 1977, ndr) e ho voluto inserirla.

 

Di Giordano Bruno volevo trovare un' immagine che non fosse quella di Campo de' fiori. Ho cercato l' equilibrio tra figure facilmente riconoscibili e altre che dessero il ritmo giusto alla sequenza. La scena chiave della Dolce Vita non è ambientata nella Fontana di Trevi, ma in una vasca da bagno. L' immagine più recente di tutte è quella delle vedove di Lampedusa, le mogli degli uomini morti in mare.

 

Il risultato di Triumphs and Laments è abbastanza vicino a ciò che avevo immaginato. Vederlo dal lato opposto del lungotevere è stata una sorpresa». Kentridge suggerisce un doppio percorso per guardare l' opera: «Si può partire da Ponte Sisto a Ponte Mazzini, costeggiando le figure. È una passeggiata piacevole di un quarto d' ora circa. Poi si può fare il giro inverso dalla riva opposta. E guardare tutto come un film».

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L' artista si muove ormai con una certa sicurezza tra i vicoli di Trastevere. Il Ponte Sisto è diventato il suo set. «La prima volta che venni a Roma, avevo sei anni. Era il 1961. Ricordo l' entusiasmo mio e dei miei genitori. Si era nel pieno della dolce vita.

 

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Avevo visto il film Vacanze Romane e tutto mi pareva rispecchiarlo. Sì, Roma oggi è cambiata, ha molti problemi, lo so. Però mi piace perché non è un museo all' aperto ma un luogo vivo, uno spazio della contemporaneità non solo per turisti. In tutte queste fontane vedo la generosità di un antico senso civico, di un design urbano pensato per i cittadini che dovrebbe essere ancora da esempio».

 

All' American Academy, sul Gianicolo, dove è ospite per tutto il mese, Kentridge ha occupato una stanza interamente bianca che utilizza come studio. Alle pareti ci sono i disegni di ieri, sul tavolo quelli che sta facendo ora. Vegetali, fiori, astrolabi su fogli gialli e marroni. «Ho trovato dell' ottimo inchiostro. Un giorno mi piacerebbe lavorare con il colore. Ma ogni volta non mi riesce. Forse sarà per un' altra vita».

 

2 - L'ELOGIO DELL' EFFIMERO SCRITTO SUL FIUME DELLA CITTÀ ETERNA

Salvatore Settis per “la Repubblica”

 

salvatore settissalvatore settis

«Roma grida, Lucca sussurra», ha detto William Friedkin ricevendo il premio alla carriera del Lucca Film Festival. Ma con il suo fregio sul Tevere William Kentridge riesce a far sussurrare anche Roma. Città che per vanteria o per destino si autoproclama "eterna", incline alla declamazione (ma anche al mediocre storytelling), Roma è però da sempre patria dell' effimero.

 

Nulla di più effimero dell' antica pittura trionfale, enormi pannelli portati in processione per mostrare alla folla i luoghi e le imprese di ogni guerra appena conclusa. In quelli per il trionfo di Vespasiano e Tito sui Giudei (71 d. C.) "vedevi regioni prospere ridotte a desolazione, enormi mura abbattute, i nemici in un lago di sangue, prigionieri imploranti pietà: scene eseguite con tanta abilità da trascinare chi le guardava sui luoghi stessi della guerra" (Flavio Giuseppe).

 

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Esposti in pubblico, questi dipinti si deterioravano rapidamente, e altri ne prendevano il posto, a celebrare altre guerre. C' è dunque qualcosa di antico nel fatto che la tecnica del fregio di Kentridge lo condanna a una vita assai breve. Vi riconosciamo scene dalla Colonna Traiana, da quella di Marco Aurelio, da altre opere di arte antica (fino a Bernini), ma nella loro potente evocazione non c' è nulla di retorico.

 

La labilità della tecnica riduce l' urlo della storia al sussurro dell' esperienza individuale, costringe a riflettere non solo sui trionfi ma sulle sconfitte ( Triumphs and Laments, dice il titolo), non solo sulla memoria dei marmi e dei libri ma su "Quello che non ricordo" (così è scritto sul muro).

 

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Kentridge è l' artista d' oggi che con più forza immaginativa ha rinnovato tecnica e funzione del disegno. I pieni e i vuoti delle sue figure presuppongono una tradizione plurisecolare di ombreggiature, ma la sormontano traducendola con sprezzatura in un linguaggio quasi scultoreo, che nella monumentalità dei muraglioni sul Tevere trova il suo teatro ideale. Qui il pathos delle immagini (dal cadavere di Remo a quello di Pasolini) s' intreccia al pathos di un' arte intensamente pensata, ma nata per morire prestissimo.

 

Eppure l' artista non si è risparmiato: pesca in un vastissimo repertorio di eventi, intrecciandoli con mirato anacronismo quasi a suggerire che Roma è infestata in simultanea dalle ombre di un passato troppo ricco, troppo lungo. Imperatori e papi, Cicerone e Mussolini, Anita Garibaldi e l' Anna Magnani di Roma città aperta, migranti a Lampedusa e partigiani fucilati si schierano l' uno accanto all' altro, in una dolorosa fraternità che fa di Roma lo scenario del mondo.

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Con geniale simmetria e raro talento compositivo, a portare le insegne del trionfo Kentridge convoca figure dall' arco di Tito (il trionfo sui Giudei), ma anche da Mantegna. A metà fregio, condensa in un solo viluppo di corpi il cadavere di Aldo Moro, barbari in battaglia dal grande sarcofago Ludovisi e la Santa Teresa di Bernini.

 

Composizione sconcertante e convincente, dove l' estasi della Santa, in quella compagnia, si trasfigura in intenso pianto funebre.

È bello che, dopo lunga anticamera di inspiegabili resistenze burocratiche, grazie all' associazione Tevereterno con il seme gettato da Kristin Jones, al Comune di Roma e al ministro Franceschini, Roma abbia in dono il più importante progetto di arte urbana oggi in Europa.

 

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Lungo il Tevere forse ancor più che sulle scene del Metropolitan (dove in novembre ha messo in scena Lulu di Alban Berg), Kentridge ha trovato una pagina congeniale al suo disegnare meditativo e talvolta ironico (ne fa le spese Vittorio Emanuele II issato su un cavalluccio di legno), ma sempre capace di assorbire la tradizione artistica fino a frantumarla, eppure rendendone riconoscibili fin le briciole, ingredienti di un presente (di lamenti più che di trionfi) che è il nostro.

 

Nelle sue Six drawing lessons (2014), Kentridge parla di una «cacofonia di informazione che ricomincia di continuo», ma quel che vediamo oggi sul Tevere non ha nulla di cacofonico. Come un direttore d' orchestra, l' artista assegna a ciascun personaggio la sua parte, e li fa suonare tutti insieme secondo spartito; ci dimostra che l' arte figurativa può ancora farsi strumento, materia, gesto di conoscenza.

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