LANTERNA MAGICA - GENOA E SAMP MAI COSÌ IN ALTO INSIEME - PREZIOSI E FERRERO DEVONO FARE UN MONUMENTO AI LORO TECNICI, GASPERINI E MIHAJLOVIC
Malcom Pagani per “il Fatto Quotidiano”
Si chiamava Pippo Spagnolo, era il più grande tifoso del Genoa dal dopoguerra e della Sampdoria, semplicemente, negava l’esistenza: “Il derby è la partita che mi interessa meno al mondo, perché io con gli altri non gioco mai. Non li riconosco. Per me l’unico derby è quello contro gli argentini del Boca”. Dall’alto, in cielo, con le dita gialle di nicotina, i capelli in tinta e la battuta pronta, oggi Spagnolo vedrebbe le cose nella giusta prospettiva e forse, finalmente, cambierebbe idea.
Dopo essersi inseguiti con gli insulti per decenni (“Rumente”, “Buliccio”) al ritmo di un “parlar camallo” che mascherava nello striscione feroce (“Noi siamo nordici / voi sudici” o anche “Se Via Isonzo è blucerchiata / Moana Pozzi è illibata”) i poveri orizzonti pallonari cittadini, i sostenitori di Genoa e Sampdoria possono guardarsi allo specchio e aspirare a qualcosa di diverso. In città, nell’incredulità generale che lenisce altre recenti ferite, si irride ora la Scala del calcio divenuta in un amen sottoscala e si discute seriamente di Champions League.
A qualcuno, con gesto apotropaico incorporato (la scaramanzia pulsa da sempre tra i vicoli di un luogo magico e ad alto tasso di mistero ed esoterismo) vengono in mente paragoni con l’alba degli Anni 90. Fotografie. Rimandi. Coincidenze. Volti e voci.
Lo scudetto vinto da quello straordinario filosofo di strada di nome Vujadin Boskov. Le rovesciate di Vialli, i calzini abbassati di Mancini, il basco di Osvaldo Bagnoli, le parate di Simone Braglia ad Anfield Road, i gol di Skuhravy, le rovesciate di Aguilera. Ai tempi in cui Gianluca Pagliuca sbagliava meno di quanto non si dedicasse a parare le mosche e il piccolo Pato d’Uruguay, anche nelle disgrazie giudiziarie, restava un figlio a cui perdonare tutto (Dentro o fuori / Pato nei nostri cuori) avventurarsi tra le ombre di Marassi non era uno scherzo.
Quest’anno, un simile cammino virtuoso in campionato non l’avrebbe potuto immaginare neanche il più ottimista tra gli adepti di stanza al Ferraris. La stagione del rinnovato amore genovese per le aree di rigore era nata tra i fischi. Da un lato, quello genoano, li aveva copiosamente collezionati in estate proprio la squadra costruita da Enrico Preziosi. Il solito patchwork fitto di pezze e di scommesse ad alto rischio, accolto dalla Nord, come negli ultimi anni, da ironie e smaccato scetticismo.
Dall’altro, l’esordio di Massimo Ferrero, il presidente “cinematografaro” succeduto al sabaudo petroliere Garrone, non aveva suscitato entusiasmi dalla Sud. Ora, prodigio, Preziosi è tornato ad avere agibilità democratica e persino applausi in tribuna d’onore e, miracolo, Ferrero cammina dalle parti di dio perché dopo aver incautamente auspicato il ritorno in Europa, ha per ora avuto ragione su tutto, mantenendo ogni singola promessa fatta. Sulla credibilità di Ferrero e sulle sue maniere inurbane, nei giorni in Franco Scoglio, ha delimitato anche il diritto di critica.
Ai primi fischi ingenerosi (piovuti dopo il pari interno con il Verona) ha zittito i contestatori e ottenuto a brutto muso il dovuto rispetto. Il suo omologo, Siniša Mihajlovic, dal canto suo ha dimostrato nuovamente la personalità già messa abbondantemente in scena da giocatore e non ha sbagliato un colpo creando un gruppo monolitico in cui gli interpreti sono intercambiabili e i giocatori rimessi a nuovo, da Okaka a Romero, sorprese inattese che hanno ora il dovere di ringraziarlo come si farebbe con un secondo padre.
Se il domani sarà davvero dolcui le sue parole dovevano essere ancora sottoposte all’onere della prova, i teorici del buon gusto e della noia obbligata avevano già emesso una non reversibile sentenza di condanna.” È cafone”, “Ci fa vergognare”, “Questa società ha avuto sempre uno stile”.
Adesso i disfattisti non si sentono più e Ferrero, invece di uniformarsi a quello degli altri, ne ha creato uno suo. Scatenato, irrituale, vincente. Dopo le lacrime, la paura di retrocedere, le maglie fatte restituire d’imperio dalla curva e lo sciopero dei tifosi, ora la Genova del calcio ride nuovamente. Nella resurrezione di un ambiente depresso hanno avuto meriti chiari anche gli allenatori.
Gasperini, il tecnico del Grifone che anni fa con il suo 3-4-3 si guadagnò l’Inter (forse, magari, osservando le macerie attuali, l’addio precoce non fu neanche sua esclusiva colpa) è tornato ad avere il coraggio di giocare alla pari con chiunque, il suo marchio di fabbrica in un recente passato. Ritrovata l’autostima, proprio come faceva l’indimenticato professor ce, si vedrà. Il torneo è a un terzo e se non si possono sigillare i sogni, non si può farlo neanche con le certezze.
Ci sarà da soffrire, da lottare, probabilmente da incazzarsi come è nello stile di due squadre che per trionfare, sono costrette a correre due volte più degli altri. Adesso il vento è a favore. Per sapere se si trasformerà in una scimmia di luce, di follia e festa collettiva, lo si saprà in primavera. Non più maledetta, ma felice. È Genova. La Genova che non sperava più di esserlo.