“LO SPECIAL ONE? STORIA VECCHIA. E POI IO NON CREDO NELLA MAGIA” - JOSÉ MOURINHO CARICA LA SQUDARA E PRENDE A CALCI LA SCARAMANZIA: “LA ODIO. E, A VOLTE, LITIGO CON CHI DÀ RETTA A QUESTE COSE”. CHE POI SAREBBE LA PRESENZA DEI MAXI-SCHERMI, NON ESATTAMENTE TALISMANI PORTAFORTUNA PER I ROMANISTI. “SE LA GENTE HA PERSO UNA FINALE ALL'OLIMPICO DAVANTI AGLI SCHERMI NON È COLPA LORO”. SE NE FREGA PURE DEL COLORE DELLA MAGLIA: “NON VOGLIO SAPERE, PER ME È UGUALE”
Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera
José Mario dos Santos Mourinho Felix, noto semplicemente come José Mourinho, non è un allenatore di calcio. È una condizione dell'animo.
Dentro cui i tifosi della Roma avevano un tremendo, urgente bisogno di entrare.
Può apparire paradossale: ma quello che accadrà stasera nell'Arena Kombëtare, questa bomboniera di stadio, è un dettaglio. Per loro, la cosa importante è esserci arrivati seguendo lui, Mou: i più fortunati qui, giunti con ogni mezzo (aerei, navi, due splendidi pazzi addirittura in moto), e tutti gli altri davanti ai maxischermi dell'Olimpico, o a casa, nel martirio del divano.
roma accolta a tirana striscione per mourinho
L'uomo chiamato Special One, con attitudini da sciamano, che parla sei lingue (portoghese, inglese, italiano, francese, spagnolo e catalano), addosso 25 titoli vinti in carriera, a Roma è riuscito a oltrepassare la cronaca, già leggendaria, per entrare in una dimensione spirituale.
Anche solo con un sofferto sesto posto in campionato. E con questa vigilia di finale: la coppa della Conference League esposta in una teca al centro di piazza Skanderbeg, i tifosi giallorossi in fila per i selfie, e gli albanesi che, per chiarire come sono schierati, di fronte allo stadio hanno appeso un gigantesco telo con la riproduzione del celebre murale disegnato nel quartiere di Testaccio dallo street artist Henry Grebb, Mourinho a cavallo di una Vespa, più la scritta: «Benvenuto a little Roma, Mister».
Adesso, chiaro: gli tocca dissimulare.
Ma lo fa con un mestiere pazzesco.
Arriva in conferenza stampa quasi dolente, e però sempre fascinoso. Si siede. Sorride con il suo sorriso (pura letteratura: ghigno che può essere gonfio di umanità, di crudele sarcasmo, di meravigliosa perfidia). Da qualche parte nel suo cuore, c'è di certo quella che noi umani chiamiamo ansia: solo che lui sa come trattenerla, e nasconderla.
Dopo 9 mesi e 55 partite, i tifosi si sono convinti di essere come lui e, soprattutto, di sentire le sue stesse cose. È un tentativo, comprensibile, di semplificare l'incantesimo.
Siamo tutti, cronisti e tifosi, soltanto ospiti del suo mondo.
Per capirci: ci tocca sentirlo dire che «la finale è il giorno dei giocatori. Noi allenatori possiamo aiutarli a leggere la partita». Forse è più sincero sulla scaramanzia: «La odio. E, a volte, litigo con chi dà retta a queste cose». Che poi sarebbe la presenza dei maxi-schermi, non esattamente talismani portafortuna. «Se la gente ha perso una finale all'Olimpico davanti agli schermi non è colpa loro». Se ne frega pure del colore della maglia: «Gli ho detto: non voglio sapere, per me è uguale».
Fin qui, il solito giochino del: va bene, fingiamo di credere a tutto quello che ci dice Mou. Magari se ne è accorto, magari è solo una banale coincidenza: però, all'improvviso, decide brutalmente di abbassare ogni aspettativa che lo riguardi, e caricare tutto sulle spalle della squadra.
Gli chiedono: cosa può fare lo Special One per vincere un match speciale? «La storia dello Special One è vecchia. E poi io non credo nella magia».
Eppure continua ad avere quella sua luce efferata dentro gli occhi. Effetto ipnotico, per i tifosi romanisti (gente che non partecipa a una finale da 31 anni, da quella di Coppa Uefa persa contro l'Inter). Le ultime partite in casa, così, con un pubblico da lotta per lo scudetto.
Gli arbitri costretti ad aspettare la fine dell'inno. Febbrile euforia, in città.
jose mourinho foto mezzelani gmt063
Per questo è chiaro che la dimensione non è quella dei risultati e dei bilanci. C'è una complessità struggente, nella storia tra Mou e i tifosi della Roma (possono forse intuire qualcosa gli interisti: ma lì, insomma, fu triplete). Qui siamo dentro la ridefinizione del significato di amore per una squadra e, soprattutto, per il suo allenatore. Lui, molto gentilmente, e senza tirarsela: «Siamo di fronte a un fenomeno sociale irrazionale».
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Ma forse è solo la voglia collettiva di fidarsi d'un miraggio. E di credere a uno che te lo indica. È un momento di dolorosa debolezza che, nella vita di tutti, e anche nel calcio, prima o poi, arriva. Specie se la frase «Smontate il palco al Circo Massimo» è diventato un modo di dire delle tifoserie avversarie.
Ecco, perciò, appunto: tanto vale andare dove indica Mou. E pensare che stasera, nel caso, la sconfitta sarebbe solo un bacio non dato.