UN MARZIANI ALLA MARINA – LA ABRAMOVIC SCODELLA UN’OPERA LIVE E UN LIBRO DAL TITOLO ''7 DEATHS OF MARIA CALLAS'' - UN VIAGGIO CHE È UN’OPERA-PERFORMANCE IN CUI LE DUE ARTISTE SI SOVRAPPONGONO TRA GIOCHI DI SPECCHI INTERIORI, ALCHIMIE DI EROS E ODORI FORTI DI THANATOS – “SONO SEMPRE STATA AFFASCINATA DALLA SUA PERSONALITÀ. COME TANTI DEI PERSONAGGI CHE HA INTERPRETATO, È MORTA PER AMORE. È MORTA DI CREPACUORE” - VIDEO
Gianluca Marziani per Dagospia
Nella mia terra marziana non esistono performer muscolari ma solo avatar digitali, lo stesso cinema su Marte è ricreato con attori elettronici dentro realtà virtuali 4D. Forse per questo ci affascina il corpo umano che si trasforma in opera d’arte. In particolare, da quando sono atterrato a Roma, osservo da vicino il mondo atletico dei performer, così diffuso negli anni Settanta e oggi in piena rigenerazione, quasi fosse il battesimo digitale di una disciplina fisica che porta la memoria a Vladimir Majakovskij, Isadora Duncan, Marcel Duchamp, Filippo Tommaso Marinetti e altri cultori del corpo come avanguardia militante.
Se oggi scorriamo l’elenco degli artisti viventi di maggior impatto globale, Marina Abramovic si conferma tra le più linkate nei social media. Nata a Belgrado nel 1946, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1997, attitudine da performer e percorso da asceta elettrica, fondatrice di una scuola a suo nome, rappresenta un riferimento adamantino per molti giovani performer.
Ormai si parla di The Abramovic Method, un approccio multidisciplinare che orchestra i rituali del corpo olistico. La vertigine Abramovic attrae coloro che approcciano al “sistema corpo” in maniera politica e militante, usando l’identità sessuale come status etico e filosofico. In un mondo che considera i device le nuove geografie da abitare, fa impressione quanto ancora si manipoli il corpo umano, quante azioni vengano incise sulla pelle, quanto la divinazione elettronica si ribalti nel dolore fisico, nel sangue, nel tatuaggio espanso, nel rito cyborg delle protesi artificiali. Il corpo non era mai stato così presente, in misura tanto ossessiva, nel ciclo sociale, al punto da trasformarsi in archivio aperto della memoria, un terreno indossabile con cui ingaggiare sfide, cambiare valori, plasmare pensieri.
Oggi Marina Abramovic si presenta al suo pubblico con un’opera live e un libro dal titolo 7 Deaths of Maria Callas (Damiani Editore). Le foto che compongono il volume sono firmate da Marco Anelli, lo stesso che aveva scattato 1545 ritratti durante la performance al MoMa.
Un viaggio endoscopico dentro l’opera e il suo diventare performance dai molteplici linguaggi, un omaggio vivo in cui le due artiste si sovrappongono tra giochi di specchi interiori, alchimie gassose di Eros e odori fortissimi di Thanatos. Il progetto live, in programma ad aprile ma rimandato causa Covid, è stato inaugurato il 1 settembre al Bayerische Staatsoper di Monaco. In attesa di vederlo qui in Italia (era in calendario al Maggio Musicale Fiorentino) avrete la possibilità di godervelo gratuitamente online, cliccando sul link che trovate in pagina.
“Per 25 anni ho voluto creare un’opera dedicata alla vita e all’arte di Maria Callas. Avevo letto tutte le biografie su di lei, ascoltato la sua straordinaria voce e guardato le registrazioni delle sue esibizioni. Come me era un Sagittario. Sono sempre stata affascinata dalla sua personalità, dalla sua vita e dalla sua morte. Come tanti dei personaggi che ha interpretato sul palco, è morta per amore. È morta di crepacuore”.
Maria Callas e Marina Abramovic: due monoliti dal nome simile e dallo spirito d’acciaio morbido, un confronto che è scontro di energie complementari, battaglia scenica in cui l’artista serba incarna sette eroine di opere liriche - Carmen, Tosca, Otello, Lucia di Lammermoor, Norma, Madama Butterfly, La Traviata - morte tragicamente in nome dell’amor omnia vincit. All’inizio l’artista voleva sette registi per altrettanti episodi che avrebbero composto un lungometraggio; diverse traversie hanno spostato il progetto su una dimensione ridotta ma non impoverita, essenziale e attualissima nel suo spirito scenico, espressiva nelle iconografie metaforiche di ogni eroina.
Addio del passato da La Traviata, Vissi d’arte da Tosca, Ave Maria da Otello, Un bel dì vedremo da Madama Butterfly, Habanera da Carmen, Il dolce suono da Lucia di Lammermoor, Casta Diva da Norma: sette arie da capogiro emotivo con cui la Callas ha offerto al mondo la sua straordinaria voce, sette temi lirici qui interpretati da altrettanti cantanti che ci portano nelle stazioni della passione femminile, del romanticismo che fagocita lo spazio e il tempo, della bellezza che abbraccia la morte.
A fianco della Abramoviccompare Willem Dafoe, mentre le musiche sono state composte da Marko Nikodijevic. 7 Deaths of Maria Callas è una forma teatrale che l’artista pratica da tempo, mescolando corpi, sculture, contributi video, tappeti sonori, animali, il tutto sotto la tenda lirica di una grande orchestra che dà forma circolare all’opera in musica. Da una parte era complicato gestire il peso umano della Callas, frequentarne la memoria registrata e interpretarla senza retorica; dall’altra era altrettanto ostico, per un’artista così connotata nel volume museale, aprirsi al codice dei melomani con approccio multimediale. Il risultato ci mostra l’età matura di Marina Abramovic, la sua naturale appartenenza al palcoscenico, una gestione magistrale degli organismi di questo grande quadro biologico.
Esiste un turning point, quel momento perfetto in cui le cose cambiano e tramutano il valore in un successo capiente. Per la Abramovic quel momento risale al 2010 e si chiama The Artist is Present: 736 ore di performance al MoMa di New York, con la nostra che restava intere giornate seduta davanti ad un tavolo, in attesa che uno spettatore dopo l’altro prendesse posto, occhi negli occhi, per un dialogo muto di pathos in purezza. Fu un successo oltre la scala del consueto, suite epica da rockstar con file di spettatori a cuore aperto, giunti da ogni parte nel tentativo di esserci, fissarsi dentro l’attimo di un’inquadratura vivente, nel quadro reale più ambito del momento.
Adorazione, feticismo, timbratura culturale, social pedigree, avanzamento di classe… molti termini per racchiudere il soggetto del desiderio tra gli oggetti da venerare. Così è accaduto alla Abramovic: da nome esclusivo nel giro culturale a figura d’orientamento nel giro sociale, da noumeno di nicchia a fenomeno pop che influenza la generazione total digital. L’artista è oggi un culto laico che ha ferito il corpo, sfibrato i muscoli, assecondato il dolore, incanalato la sopportazione, dilatando i limiti di un essere femminile, sfidando il machismo occidentale, ampliando la coscienza sensibile.
Tra le nuove generazioni sta crescendo un virus generativo che chiamerei La Sindrome di Marina: dove la Nostra è l’archetipo che fonde i due gender dominanti - Uomo e Donna - in un metagender autonomo, politicamente dinamico, oltre la cultura binaria.
Le figure ibride della musica elettronica, ad oggi il linguaggio che meglio capta le rivoluzioni del costume, sembrano figlie di Valie Export, Gina Pane, Annie Sprinkle, Laurie Anderson, Meredith Monk e, appunto, Marina Abramovic. Penso ad Arca, Lotic, Sophie, Sevdaliza, Holly Herndon, Moses Sumney, Perfume Genius, Lafawndah, Deena Abdelwahed, Fatima Al Qadiri, producer che, usando la politica del corpo, elaborano una politica militante delle idee virali, delle nuove regole per salvare il mondo, della rottura con molte certezze del Novecento.
Crescono le realtà comunitarie, i contesti in cui i mondi non binari si riconoscono; sta aumentando la forza generativa dei nuovi creativi all digital, i primi che scelgono riferimenti non allineati, che rifuggono la morale comune, che orientano nuovi modi di pensare e agire. Cinema, Letteratura, Teatro, Poesia, Arti Visive: ogni campo sembra attraversato dalla Sindrome di Marina, da un approccio in cui la visione del futuro parte dalla Grande Madre, da un archetipo cellulare, da questa madame atomica che influenza il cuore e la testa della digital generation.
La mostra fiorentina del 2018-2019 a Palazzo Strozzi è stato un altro turning point per l’artista serba (non dimenticando gli amorevoli progetti con Stefania Miscetti, gallerista romana con cui ha realizzato splendide mostre). Un successo da passaparola che mai si era verificato, qui in Italia, con un’esposizione di arte performativa.
Ci sono motivi profondi se un artista coglie lo spirito del pubblico, orientando generazioni e classi sociali, creando un bacino di utenti ampio e spontaneo. Esistono fattori molteplici che determinano il successo, nel caso di un artista visivo le variabili sono meno ovvie rispetto a cantanti ed attori per i quali è il linguaggio stesso - musica e cinema - che si presta ad una fruizione virale e divistica. L’artista, isolato per condizione creativa, talvolta sfugge ai confini meno elastici del Sistema Arte e cresce sui media ad alta diffusione, quasi sempre accompagnando la sua vicenda a fatti di cronaca, gossip, vicende sentimentali, coinvolgimenti nella moda, nel cinema, nella televisione generalista.
La bravura sta nella capacità di gestirsi dentro un sistema pop che spesso fagocita e non metabolizza. L’artista che sfida il grande pubblico deve adattarsi ai vari habitat con spirito relativista, usando la fama mediatica come combustibile d’influenza generazionale.
Abramovic non ha mai perso la frequenza della qualità, anche nei momenti più “frivoli” ha mantenuto coscienza del suo status straordinario; al contempo, ha capito che serviva un processo inclusivo, fatto di linguaggio verbale e posture adeguate, di posizioni sociali anche scomode ma generative, di giuste tematiche da cavalcare, di potenza espressiva e autonomia femminile. Le Donne di ogni età sentono tutto questo e sono state Loro, in primis, a decretarne l’ascesa tra le figure influenti del Pianeta. Da oggetto discutibile a soggetto per la discussione: un passaggio fiduciario tra artista e pubblico, una medaglia che trasforma la carta d’identità in un brand da spuntatura blu su Instagram.
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