UN MARZIANI A ROMA – "GUARDANDO LA CAPITALE METAFISICA IN QUESTI GIORNI DI PSICOSI PER IL VIRUS HO RIPENSATO ALLA MOSTRA DI EDWARD HOPPER VISTA A BASILEA. PARLO DI UN MAESTRO CHE SOLITUDINE E SILENZI LI HA RACCONTATI COME POCHI ALTRI NEL NOVECENTO. OSSERVATE BENE HOPPER E POI TORNATE IN FINESTRA, SOVRAPPONENDO DUE REALTÀ CHE SEMBRANO IMMOBILI SENZA ESSERLO…"
Gianluca Marziani per Dagospia
Qui il vostro marziano a Roma, “domesticalizzato” come buonissima parte del popolo italiano. Confesso che la mia missione terrestre non aveva considerato eventi di tale portata, anche perché su Marte anticipiamo i problemi massivi con investimenti sanitari a lungo raggio, optando per sistemi protettivi che evitino lockdown e psicosi collettiva. Mi adeguo, comunque, ai vostri giorni metafisici in cui la città rivela il suo nitore architettonico, in cui il silenzio distribuisce i suoni naturali in modo stereofonico, l’atmosfera ritrova la sua grana limpida, gli animali sentono diminuire l’ostilità del contesto e vivono la loro imprevista vacanza urbana.
D’improvviso si riempiono le case e si svuotano gli spazi del lavoro, un travaso di apparente squilibrio che posiziona gli umani davanti all’agenda del ciclo biologico. Il silenzio diffuso fa uno strano rumore se sostituisce il grugnito metallico delle giornate psicotiche, ormai Roma sembra un gigantesco set in cui immagini migliaia di droni silenti che filmano la vita a passo uno nel primo vero film “reale” del nuovo millennio.
Nei brevi momenti da camminatore di quartiere i pensieri viaggiano a velocità inaudite, come se la città diventasse una biblioteca senza tetto, un luogo d’ispirazione che ossigena lo sguardo e amplifica lo spettro filosofico. Ieri osservavo un bar dalle belle vetrate, chiuso al pubblico ma con una persona sul bancone, mano in fronte e sguardo perso, forse il proprietario che rifletteva disperato su stipendi e mutui in corso. L’immagine mi ha commosso e folgorato, rimandando la memoria ad una mostra che ho visto poco prima del “big bang stop”.
Parlo di un maestro che solitudine e silenzi li ha raccontati come pochi altri nel Novecento: si tratta di Edward Hopper (1882-1967), fuoriclasse che ha fatto da stella polare alla figurazione americana, aggiungendo la frontiera alla metafisica europea, un’epica fordiana (ma non fordista) impiantata sul modello figurativo francese, come se Degas e Manet fossero andati on the road per la Route 66 e avessero dipinto le loro “impressioni americane”. La Fondation Beyeler di Basilea (la mostra chiude il 17 maggio) ci vizia come al suo solito, regalandoci una mostra di perfezione limpida ed essenziale, così simile al silenzio mattutino in questi giorni di straordinario silenzio. Un’esposizione che spero possiate vedere al più presto, non appena il mondo, svegliandosi dal buio sociale, riavrà le chiavi della bellezza e della partecipazione.
Una coppia sul patio di un terrazzo. Una donna davanti alla bow-window della sua casa a Cape Cod. Una ragazza pensierosa sul suo letto mentre osserva la città dal’alto. Un benzinaio solitario su una via di campagna. Una donna tutta sola sul divano, una coppia silenziosa in tinello… descritte così sembrano le immagini da Instagram degli italiani che postano frammenti di vita, in realtà sono i temi ricorrenti che hanno reso magistrale la metafisica ordinaria di Hopper, la sua idea antieroica e neorealista, molto poco american way of life; un’idea in cui le solitudini garbate, la malinconia senza enfasi e la normalità dignitosa hanno offerto al mondo il lato in ombra di una Nazione ad elevata competizione selettiva. Dagli anni Quaranta ai Sessanta Hopper espresse al meglio la sua vena narrativa dal cuore filmico, il suo racconto essenziale, la sua indole da osservatore chirurgico, così simile ai tratti letterari di John Fante e Raymond Carver. Sono anni dorati per i colossi industriali a Houston e Pittsburgh, anni di crescita verticale a Chicago e New York, di crescita intellettuale nelle università di Boston, anni di grandi magazzini e invenzioni tecnologiche, di merci, automobili e lusso moderno…
America del grande sogno e delle gigantesche solitudini geografiche, terra di lingue d’asfalto lunghe come oceani, di eroi della frontiera e guerrieri del capitalismo, terra di canyon e deserti, motel e acciaio cromato. America che premiava i coraggiosi, gli spavaldi, gli avventurieri e i talentosi ma che dilaniava le anime perse, i cuori pavidi, le vite in bilico, gli spiriti depressi. Hopper fu il cantore ispirato del lato borghese più umbratile, il pennello poetico che narrò la solitudine dei numeri secondi, celebrando piccoli attimi di realismo crudo, quasi oltraggioso per una Nazione che correva verso l’estasi del progresso.
Uomini e donne, giovani e vecchi, benestanti o “malestanti”, soli nel clamore agorafobico, nell’eco di un monologo nostalgico, nello sguardo in direzione del vuoto. Somigliano alle poche persone che si vedono in giro dalle nostre finestre in questi giorni pandemici. Anche quei piccoli americani, come noi oggi, sembrano banditi dal consesso sociale, isolati o comunque sul lato vuoto della piazza d’affari, privati di abbracci e sudore, di baci sulla bocca, senza distanze di insicurezza. E ci ricordano che la solitudine, quando non la cerchi per “mestiere”, è davvero una brutta bestia.
Osservate bene Hopper e poi tornate in finestra, sovrapponendo due solitudini, due realtà che sembrano immobili senza esserlo: da una parte la pittura che intuisce il futuro nella sua dimensione metafisica, dall’altra la nostra città che si svuota e respira a polmoni aperti, prendendo una pausa da noi umani, lasciando spazio alle traiettorie degli uccelli, regalando silenzi in quantità orchestrale. Credetemi, quando anche passeggiare è un privilegio non scontato, solo l’arte vi spiega che esiste un tempo per camminare e un tempo per fermarsi, e che ogni pausa nasconde occasioni di rinascita, di nuova bellezza, di ritrovata armonia. L’importante sarà non farsi cogliere impreparati.