PRESO A P-ESCHER IN FACCIA - NEL 1969 MICK JAGGER SCRISSE UNA LETTERA GENTILISSIMA E AMMIRATA PER CHIEDERE A ESCHER IL PERMESSO DI USARE UN SUO LAVORO PER LA COPERTINA DI UN DISCO - L’ARTISTA RISPOSE STIZZITO
1 - L’ENIGMA ESCHER
Giulio Giorello per il “Corriere della Sera”
Bisogna saper «trattare la natura attraverso il cilindro, la sfera, il cono, il tutto messo in prospettiva», dichiarava Paul Cézanne nel 1904. E Maurits Cornelis Escher ricordava nel 1965 che «ordine, regolarità, ripetizioni e rinnovi ciclici hanno iniziato a parlarmi con forza sempre maggiore».
Ciò gli aveva dato un senso di effimera sicurezza, quella di non vivere «in un caos senza regole, come a volte potrebbe sembrare». Ma c’erano stati anche momenti di delusione: «un essere umano non è mai veramente felice. L’inutilità, la vacuità, l’impotenza... ti fanno sentire come un limone spremuto», confidava al figlio George nel 1961: «ho sempre saputo che il silenzio è d’oro e le parole sono fango, ma poi continuo a parlare».
Per fortuna nostra ha continuato anche a disegnare le sue esotiche geometrie. Sbaglierebbe però chi lo relegasse al ruolo di semplice illustratore di paradossi matematici; anzi, lui si sentiva terribilmente inadeguato per le alte vette dell’astrazione geometrica. Quei due domini, matematica e rappresentazione grafica, «sono sempre in contatto, però non si sovrappongono mai completamente».
Lui considerava tutto ciò un fallimento; ma tale scarto tra l’idealizzazione operata dal matematico e l’ambigua corporeità del vivente potrebbe essere uno dei motivi del fascino di questo artista straordinario? Di mio, come individuo che ha spesso cercato — più per piacere che per professione — la filosofia entro le pieghe della matematica, mi sono reso conto come certe immagini di Escher abbiano segnato il trionfo di un’immaginazione tentata dall’impossibile. Senza dimenticare che il suo stesso bisogno di ordine e sicurezza era un modo più sottile e sofisticato per aprirsi a nuovi orizzonti di inquietudine.
Sono il nitore e la semplicità del tratto dell’artista a sedurre pure chi di alta geometria non sa (e magari non vuol sapere). Quasi ipnotica era la sua voluta indecisione tra inizio e fine di ciò che viene rappresentato: la celebre mano che disegna una mano che a sua volta la disegna potrebbe essere presa a simbolo del suo intero cammino.
E lo scambio incessante tra figura e sfondo evidenzia nel modo più diretto l’instabilità della nostra percezione di quella che consideriamo ingenuamente realtà. «Devo combattere, con due distinti problemi che insieme rendono il tutto così affascinante: primo, incastrare o mettere insieme le figure congruenti che mi servono; secondo, comporre un piano chiuso con misure specifiche nel quale queste figure, che portano in sé infinito e sconfinatezza, giacciono incatenate o imprigionate».
E lo spettatore non può che condividere lo sforzo e insieme la soddisfazione di questa liberazione. Per di più, ciò che nel disegno di Escher considerato nei particolari pare perfettamente abituale, globalmente delinea un paesaggio che mette in crisi tutte le provvisorie certezze che ci formiamo nella nostra esistenza quotidiana.
Ne scaturisce un senso di spaesamento, come se l’artista conducesse l’occhio di chi guarda in regioni aliene dove smarrirsi è fonte di piacere, ma anche di timore: Escher ha mostrato così quanto possa rivelarsi insidiosa la trama di cui pensiamo sia formato l’universo.
E si tratta di un universo ben disposto a ospitare la vita. In una delle più fantastiche sue litografie, Rettili del 1943, una banda di coccodrilli, talvolta più simili a vecchi dragoni cinesi che alle forme abitualmente classificate dai naturalisti, prende vita da un quaderno in cui sono disegnati alternativamente come sfondo e figura quegli animali, destinati ad arrampicarsi su una pila di libri, a visitare un dodecaedro, a disturbare fiammiferi e sigarette di qualche fumatore, e a rituffarsi, infine... nel disegno del quaderno.
Ma in altri «tentativi» di Escher i rettili diventano anfibi, e gli anfibi uccelli pronti a uscire persino dal foglio. L’artista amava ripetere che tutti noi, esseri umani, coccodrilli e volatili vari «siamo solo pezzi dell’evoluzione». Così noi scopriamo che il vero oggetto delle sue rappresentazioni è il processo del movimento e del mutamento. Il filosofo Thomas Hobbes diceva che «per definizione il tempo è il fantasma del moto». Escher sentiva e ci ha fatto sentire quanto da questo fantasma tutti noi siamo rapiti, perché nessuno «è capace di immaginare che il flusso del tempo possa mai arrivare a fermarsi» neppure per un attimo.
2 - MALTRATTÒ MICK JAGGER MA IL ROCK LO ADORAVA
Paolo Madeddu per il “Corriere della Sera”
Due persone nella storia hanno maltrattato Mick Jagger. Una è Keith Richards, suo migliore amico, co-fondatore dei Rolling Stones. L’altra è Escher — che nel 1969, a una lettera gentilissima e ammirata con cui la rockstar chiedeva il permesso di usare (pagando, s’intende) un suo lavoro per la copertina di un disco, fece rispondere che aveva cose più importanti da fare, concludendo con «E vi prego di informare il sig. Jagger che per lui, non mi chiamo Maurits, ma M.C. Escher».
E dire che il cantante era stato uno dei pochi a chiedere il permesso: di norma gli hippies prendevano le sue opere abusivamente per redditizi poster e magliette, a volte cambiando nome e colori (come Sogno del 1935, ribattezzata Brutto viaggio da un produttore di poster di New York). È vero che la controcultura psichedelica fu decisiva nel dargli una tardiva fama, tanto più che si era diffusa l’idea che lui usasse stupefacenti e con messaggi in codice nelle sue opere invitasse a fare lo stesso: come Lewis Carroll, fu un involontario testimonial per i paradisi artificiali.
Ma Escher rifiutò, infastidito, ogni contatto. Difficile peraltro individuare il momento in cui le sue opere arrivarono all’underground: quando Thomas Albright ne parlò su «Rolling Stone» nel 1970, la stima (non ricambiata) era già cospicua. E l’uso del suo materiale proseguì, favorito dal fatto che Escher a lungo si astenne dal fare causa: erano anni difficili per la tutela della creazione artistica, cosa nota nell’ambiente del rock.
mick jagger in costume a miami
Così, paradossalmente, Jagger fu beffato dalla band Mott the Hoople, emuli dei Rolling Stones, che senza tanti complimenti (è il caso di dirlo) usò Rettili per la copertina del primo LP ( nella foto ). Ma ci sono stati anche casi di ispirazione non predatoria: i Pink Floyd, per alcune delle loro prime composizioni, hanno citato i suoi quadri per descrivere l’effetto sonoro cercato. È ironico che i loro dischi-pirata abbiano spesso avuto copertine-pirata prese proprio da Escher.