STILE MENNEA: QUELLA CORSA STORTA PER PRENDERSI IL MONDO

Beppe Di Corrado per "Il Foglio"

Pietro Mennea correva storto. Brutto. Lo vedi ora nelle immagini che passano a rullo sui tg e pensi: come ha fatto uno così a vincere tutto? Il contrario di Carl Lewis, l'opposto di Usain Bolt. Continua a guardare e smetterai di farti quella domanda, perché non conta la risposta, ma la sostanza: l'ha fatto. E' morto un tipo di atleta che non avremo più. L'altra faccia dello sport: quello che al posto della tecnica, del gesto, del movimento, della perfezione, hanno la voglia.

E' morto l'altro Coppi, nel senso di diverso, di opposto: un vincitore sgraziato che per una vita è stato sinonimo d'Italia e di corsa. Lo dicono in molti adesso che c'è stata una generazione cresciuta sentendo frasi come questa: "Dove corri? Chi ti credi di essere... Mennea?". E' stato un termine di paragone: per lo sport il suo è stato uno dei record più lunghi di sempre, uno che regge ancora perché non c'è un europeo in grado di correre oggi i 200 metri in 19 secondi e 72 centesimi come fece lui a Città del Messico. Sono passati trentuno anni e un continente intero non è stato in grado di far nascere un uomo in grado di andare più forte.

Ma il paragone di Mennea è stato anche con la società: con lui finì quella strana riluttanza a vedere i meridionali come figli di uno sport nobile. Quello stile senza stile sconfisse pregiudizi e cattiverie. Perché c'era la voglia, c'era la grinta, c'era la spinta a farcela, ma tutto confluiva nell'allenamento e nello studio. Perché Mennea si creò atleta e velocista sforzandosi come un dannato e applicando le ricette della scienza sportiva che nasceva in quegli anni. Lui e il professor Vittori, l'uno con l'altro, l'uno indispensabile all'altro.

Fu così che si lasciò alle spalle gli avversari e il nemico peggiore: il rischio di sentirsi il brutto anatroccolo, di non riuscire a farcela, di non essere all'altezza, di venire dal sud, di non essere preparato, di non avere a disposizione gli stessi mezzi che avevano gli altri nel resto del mondo. Sconfisse tutto in meno di venti secondi, quel 15 settembre 1979, con una pioggia sottile che scendeva sullo stadio di Città del Messico. Anni dopo disse: "Il pubblico urlò. Io capii, ma non ero sicuro. Non c'erano tabelloni elettrici, allora. Mi girai. L'unico cronometro era alla partenza. Guardai le cifre, forse che avevano sbagliato anno? Eravamo nel '79 non nel '72, poi mi vennero tutti addosso, ci fu una grande confusione".

Diciannove e settantadue non è stato soltanto un tempo. E' stato un infinito insegnamento: quello che il talento non è sufficiente a vincere, che i geni sono molto ma non abbastanza. Lo sprint è una di quelle discipline che dopo Mennea è cambiata per sempre: Carl Lewis e tutti quelli che sono venuti dopo, fino a Bolt, hanno dovuto faticare come lui per farcela. Avevano un altro corpo, altre gambe, ma hanno dovuto cercare di avere la sua testa. La sua vita è stata una curva. Quella. Il momento più difficile dei duecento metri, quello dove puoi scomparire, dove l'inclinazione del corpo può tradirti e mandarti fuori giri. L'ha fatta alla perfezione quella sera del 1980, a Mosca, quando uscì dall'ottava corsia e si andò a prendere l'oro alle Olimpiadi, alzando il dito in faccia al mondo e in faccia a chi in Italia allora dissero: "E' una vittoria piccola, perché non ci sono gli americani". L'ottava corsia era un simbolo: la curva, sempre quella, è più lunga, non finisce mai, tu corri, corri, corri e stai sempre più in bilico, sempre più storto. Come Mennea. L'ottava corsia è la più difficile di tutte. Come venire da Barletta e prendersi il mondo.

 

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