1- ADDIO ALLA GRANDE ANNA PIAGGI, LA DONNA CHE SUBLIMò LA MODA IN UN ROMANZO POST-MODERMO, CAMP E MAI KITSCH, “SCRIVENDOSI” ATTRAVERSO L’ESTETICA DELLO STILE 2- INCURANTE DI CODICI STABILITI, ANNA NE INVENTAVA CONTINUAMENTE DI NUOVI, ACCOSTANDO SUL PROPRIO CORPO “PEZZI” D’ABBIGLIAMENTO ALL’APPARENZA INCONGRUI, UN ABITO DA MARINAIO ANNI TRENTA CON IN TESTA UNA PARRUCCA DEL SETTECENTO 3- QUIRINO CONTI: “SEMPRE IN ANTICIPO SU QUALUNQUE ECLETTISMO E OGNI GENERE DI CONTAMINAZIONE CITAZIONISTA. ARTIFICIOSAMENTE SUPERFICIALE, MINIMIZZANTE E LEGGERA; DI QUELLA LEVITÀ CHE, COME IN DAVID HOCKNEY, È SOTTIGLIEZZA E AGILITÀ” 4- LA SOLITA COMMEDIA ITALICA: COME PER RENATO NICOLINI, CI VUOLE LA SCOMPARSA PER RISCOPRIRE IL GENIO E IL TALENTO: QUALE GIORNALE SI E’ MAI RICORDATO DI LEI?

1- È MORTA ANNA PIAGGI "PENNA" DELL'ALTA MODA
Maria Giulia Minetti per "la Stampa"

Era una signora borghese per bene, parlava con garbo, con competenza del suo lavoro; gesti, voce, tratto erano quelli educati della classe media di Milano, restia ad alzare la voce, a esibirsi. Il paradosso straordinario della grande giornalista di moda Anna Piaggi, per anni colonna di «Vogue», scomparsa ieri a 81 anni di età, era la scissione tra arte e vita, tra ciò che creava, e ciò che era.

Perché quella stessa signora che misurava le parole e viveva in una casa gaddiana signorile e vecchiotta, quella stessa signora vestiva però in maniera inconcepibilmente vistosa, surreale, «impossibile», e ogni volta che usciva di casa, la gente restava imbambolata a guardarla.

Anna Piaggi usava se stessa per le sue invenzioni estetiche, per le sue esplorazioni vestimentali, e nulla era più sconcertante del contrasto tra l'opera e l'autore, riassunti nella stessa persona. Il paragone con Carlo Emilio Gadda, per Anna Piaggi, regge benissimo, al di là dell'analogia tra le case dei due, ombrose, piene di vecchi mobili.

Discreta nella vita come l'Ingegnere, come lui è stata barocca e spregiudicata nell'estro. Incurante di codici stabiliti, Anna ne inventava continuamente di nuovi, accostando sul proprio corpo «pezzi» d'abbigliamento all'apparenza incongrui, un abito da marinaio anni Trenta portato con in testa una parrucca femminile del Settecento, una gonna di tweed con una cotta di maglia quattrocentesca (Anna, che fu la prima a adottare e lanciare il «vintage», era rigorosa sull'autenticità, e percorreva chilometri di mercati e mercatini per rintracciarla).

Nel 1986 Anna Piaggi scrisse un libro, «Anna-Cronique, un diario di moda». Le illustrazioni, sketch delle performance vestimentarie dell'autrice, erano dovute alla matita di Karl Lagerfeld, devoto e costante ammiratore. Dopo un inizio precario («Traducevo libri gialli - mi raccontò - e m'arrangiavo con molti mestieri. Ho fatto perfino la telefonista, e l'impiegata in una raffineria di petrolio»), Anna trovò un lavoro a «Grazia» e infilò la strada che, di giornale in giornale, l'avrebbe infine portata a «Vogue», dove arrivò nel 1968, l'anno ideale perché la sua fantasia scatenata e intemerata potesse esplodere dalle pagine.

Nel frattempo si era sposata col fotografo Alfa Castaldi, e i due formarono per molti anni una coppia eminente nella Milano che s'avviava a diventare - e divenne - una capitale della moda (Alfa morirà nel 1995). E pensare che all'inizio degli anni Cinquanta, quando esordisce nel lavoro, Anna, viso tondo, gran naso, capelli sulle spalle, vestiva in gonna e camicetta! «Nessuno era preparato all'Anna Piaggi di là da venire - mi disse -. Nemmeno io, probabilmente».

2- LA DONNA CHE HA TRASFORMATO LA MODA IN UN ROMANZO
(Quirino Conti, brani da Mai il Mondo saprà. Conversazioni sulla Moda. Feltrinelli, 2005)

"... inesauribili sono le storie che Anna Piaggi, celebratissima giornalista, esperto connaisseur, ma più di ogni altra cosa scrittrice, con la Moda sciorina e sgrana sul suo corpo minuto, esempio irraggiungibile, nello Stile, di cultura, memoria ed enciclopedismo; ma soprattutto di ermetismo.

Poiché i suoi capolavori sono rompicapo, thriller, gialli alla Ruth Rendell la cui massima ambizione è, sino in fondo, con abilità e destrezza mantenere occulto, senza mai rivelarlo, il suo piano. In una trama che non si svela che per fulminei accenni, per poi tornare al suo mistero. Senza quasi mai, se non dopo molte congetture, venire a capo di qualcosa, di un movente, di un colpevole, stilistici ovviamente.

I labirinti delle sue storie sono infatti disseminati di continui tranelli, false piste, indizi fuorvianti, sospetti non verificabili e dubbie testimonianze. Poiché ogni parte e ogni pezzo del suo montaggio era sempre "altrove", e se c'era, nel suo presente, di sicuro non aveva né visto né sentito.

Perché l'intrigo fosse perfetto e gli stili, tutti, nessuno escluso, potenziali responsabili dentro una trama coinvolgente e appassionante. La mite, cortesissima e formale Anna Piaggi è infatti il genio dei più sconvenienti depistaggi.

E lo è così tanto e per istinto da riuscire a riconoscere e a identificare al volo anche quelli tentati da altri, come quando, unica in una platea di esperti, senza esitazione scoprì e individuò un Alma Tadema in sneakers di seta e un saviniano poltrobabbo dietro una piccola giacca di pequin concepita e costruita come una housse per l'esordio di un giovane stilista che, a un riconoscimento e a una incriminazione tanto schiaccianti, sentendosi smascherato era già con le mani in alto.

Ma la sua astuzia narrativa nello scriversi addosso e nel cercare costantemente di trascinare il suo lettore fuori pista è così tanto acuta che la si potrebbe facilmente incontrare in una qualsiasi sala d'attesa d'aeroporto perfettamente conclusa nella trama del suo ultimo thriller con indosso una autentica visite di Worth 1882 in seta marrone-bronzo, ricamata con granati e fili d'oro - sul dorso una cascata di fiocchi di seta, densi e leggeri come vischio o mimosa - e dal colletto di velluto cremisi con attaccata una sciarpa azzurro canard.

Su jodphurs da motociclista di Laurence Corner, risalenti alla Seconda guerra mondiale, guanti di taffettà scozzese, calze rosse su tacco a rocchetto e bastone art nouveau con manico d'avorio e oro. Testa alla Brutus, con cascata asimmetrica di pieghe sul'occhio destro e tracce si riccioli sull'altra guancia. Trucco cézanniano, fra il colore smosso di Andy Warhol, gli anni trenta e una stampa giapponese dell'era Meiji (1868-1898).

Poggiati sul sedile accanto, come un'indecifrabile natura morta, un manicotto di pelliccia, Fendi 1978, e una borsa-fiocco. Incomparabile e sempre in anticipo su qualunque eclettismo e ogni genere di contaminazione citazionista. Artificiosamente superficiale, minimizzante e leggera; di quella levità che, come in David Hockney, è sottigliezza e agilità. Perché il suo eccidio sia ancor più dissimulato e quegli alibi e le loro trame al di sopra di ogni sospetto..."

 

 

 

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