“CONTRO DI NOI SI E’ SCATENATO QUALCUNO POTENTE” - DOPO 9 MESI A REBIBBIA, PARLA FRANCESCA OCCHIONERO, ACCUSATA CON IL FRATELLO DI AVER RUBATO PASSWORD DI POLITICI E ISTITUZIONI: “NON SONO DELLA CIA. NEI SERVER IN USA ABBIAMO INFORMAZIONI STRATEGICHE. SIAMO UNA BANCA D'INVESTIMENTO E AVEVAMO ANCHE INFORMAZIONI SU CLIENTI ITALIANI MA SONO RISERVATE…”
Giuseppe Scarpa per “la Repubblica”
«Non sono della Cia, sono un capro espiatorio, vittima di un equivoco». E ancora. «Non ho mai carpito dati a nessuno, sono incappata in questa storia perché qualcuno ha voluto così». Uscita dal carcere una settimana fa, parla per la prima volta Francesca Occhionero, accusata insieme al fratello Giulio di spionaggio informatico dalla procura di Roma: sui loro computer gli inquirenti hanno trovato centinaia di indirizzi mail, con password, di istituzioni dello Stato italiano.
Cosa intende per capri espiatori? Pensa di avere pestato i piedi a qualcuno?
«Può darsi che la segnalazione su di noi sia arrivata da qualcuno molto potente».
Di cosa si occupava la vostra società?
«Io e mio fratello lavoriamo insieme da tanti anni. Abbiamo la Westland, una banca di investimento all' americana. Curavamo grandi investimenti e progetti. Dovevamo realizzare il porto di Taranto. Sull' attività di mio fratello so questo, di virus non so nulla.
Mi occupavo dell' amministrazione, del personale e dei contenziosi».
Suo fratello aveva rapporti sospetti?
«Che io sappia no. Il malware che ci accusano di aver usato per spiare è vecchio, era già in altri computer».
L'accusano di aver impedito le indagini della Polizia postale. È vero?
«Durante la prima perquisizione i poliziotti vollero l' accesso al pc di mia madre, ma lei ha 80 anni ed è andata in tilt quando ha visto la polizia armata che frugava in casa. Non ricordava la password. Io pensavo di ricordarla, ma mi sbagliavo e al terzo tentativo il computer si è bloccato. Poi siamo andati a casa mia. Volevano accedere dal mio computer e io ho spiegato di fare attenzione: il portatile è collegato a un dominio che sta negli Stati Uniti».
E perché non gli ha consentito l'accesso?
ALFREDO DANESI GIULIO OCCHIONERO
«Avevo paura di ripercussioni legali, quindi chiesi di parlare con un avvocato americano per sapere che rischi stavo correndo, ma mi dissero: "noi siamo la polizia e possiamo fare qualsiasi cosa". Andai nel pallone e mentre ero alla scrivania sfilai la card del computer. Loro questo gesto lo interpretano come una mossa fatta per danneggiare i dati, ma non è così».
Cosa c'è in quei server americani?
«Abbiamo informazioni strategiche americane. Siamo una banca d' investimento e avevamo dati sensibili delle compagnie con cui lavoravamo. Sui server ci sono anche informazioni su clienti italiani, ma sono riservate. Si tratta di dati di persone con cui lavoravamo: il personale, i progetti, le centrali rischi, le esposizioni bancarie, i casellari».
Cosa dovevate fare nel vostro garage? In una intercettazione si legge: "per il garage della mamma abbiamo tempo per farlo".
«Non ricordo, abbiamo venduto dei tappeti su Ebay, c' erano tante cose in garage. Tutti i mobili vecchi della casa di mio fratello e i tappeti, l' archivio cartaceo della Westland e quindi faldoni e faldoni. Ad oggi comunque, dalla lunga deposizione del teste chiave dell' accusa, di questo garage non si è più parlato ».
Si è decisa a collaborare con gli inquirenti?
«No, non mi fido più delle forze dell' ordine. Avrei paura a collaborare perché ho capito che possono fare qualsiasi cosa».
Come è stata la sua esperienza in carcere?
«Surreale. Confrontandomi con altre detenute ho anche capito che le condizioni carcerarie di Rebibbia sono qualitativamente più alte rispetto ad altre carceri, ma per una persona che solitamente ha una vita normale è una sorta di lager. Sono stata sotto osservazione, le compagne di cella che ho avuto non erano state scelte a caso. Il tam tam di Rebibbia mi ha allertato su compagne di cella "sospette"».
E gli agenti della penitenziaria?
«I secondini mi perquisivano e io non potevo assistere. Secondo me cercavano password, memorie e appunti. Ho trascorso 25 giorni in una cella d' isolamento senza giornali o televisione. Poi sono stata trasferita al primo piano insieme a due rom e due romene e dopo quattro giorni mi hanno portato al "reparto cellulari": sono stanzette con due persone. Io ero insieme a una brasiliana arrestata per traffico internazionale di stupefacenti. Si faceva i fatti miei, frugava tra le mie cose, gli atti del processo, la posta. Non potevo avere un computer».
Come ha passato il tempo?
«Le mie giornate trascorrevano facendo sport in un cortile di 80 passi: ho scritto un libro che è quasi concluso. All' inizio non avevo nulla, neanche le scarpe. Per un mese sono stata solo con le ciabatte. Non avevo neppure un orologio».