GIÙ LE MANI DALL’ABBUFFATA NATALIZIA – MARINO NIOLA IN DIFESA DELLE TAVOLE STRABORDANTI DI CIBO DURANTE LE FESTE: “È UN RITO SACRO. MI FANNO RIDERE QUELLI VORREBBERO UN RITORNO AL TEMPO DELL’ALBERO DEGLI ZOCCOLI, ALLA SOCIETÀ DELLA FAME. SE CI SENTISSERO I NOSTRI NONNI, I BISNONNI, CI PRENDEREBBERO A PEDATE” – L’AFFONDO CONTRO I VEGETARIANI: “INSOLENTISCONO LA BUONA TAVOLA. SONO FIGLI DELLA SOCIETÀ DELL’ABBONDANZA E DI COSÌ TANTE BUONE LETTURE DA SVILUPPARE IN TAVOLA UNA SORTA DI CAPRICCIO SELETTIVO…”
Antonello Caporale per il “Fatto quotidiano”
Professor Marino Niola, lei sente il dovere di fare l’elegia dell’abbuffata natalizia.
Intendo promuovere un atto di legittima difesa contro l’orda di puristi che invoca digiuni invasivi quanto non astinenze totalitarie, e disconosce la radice comune della festività in quanto tale: essere onorata a tavola con quel sovrappiù di cibo.
Sarà con noi il partito dei trigliceridi e del colesterolo, ma perdiamo larga fetta della sinistra etica e il resto indistinto.
Subiamo un grave fraintendimento logico. Vorremmo trasferire a tavola il dogma della natività, e dunque spiritualizzare quel che invece è materiale.
Il dogma è senza corpo.
C’è lo spirito e poi c’è la materia.
[…]
Il cibo è importante.
Dobbiamo disporci con qualche entusiasmo al sacrificio alimentare.
Il sacrificio alimentare?
Abbuffarci fino a spanzarci. Pieni al termine della gola.
Esageratamente sazi.
Mi fanno ridere quelli che contestano la magniloquenza delle nostre tavole imbandite. Vorrebbero che ritornassimo al tempo dell’albero degli zoccoli, alla società della fame. Se ci sentissero i nostri nonni, i bisnonni, i trisavoli, ci prenderebbero a pedate.
Quella era la società della fame.
E anche nel regime di povertà nera, quasi assoluta, le festività come il Natale erano uno di quei pochi appuntamenti nei quali si poteva mangiare a sazietà.
Quale miracolo accadeva?
Per alcuni mesi, quelli che precedevano il Natale, in famiglia si dava vita a un piccolo salvadanaio (a Napoli si dice o’ canistro, il canestro) per il giorno dell’abbuffata.
Un soldo oggi, un soldo domani.
E così arrivati al fatidico giorno a tavola si portava il “canestro delle leccornie”, il salvadanaio si rompeva e finalmente si mangiava a sazietà.
[…]
Si spanzavano, si abbuffavano magari non come noi.
Forse non così, però insomma ci davano sotto. Era anch’esso un atto di fede. Infatti, torno a Napoli che è la mia città, la cena della vigilia contempla cibi non sempre di nostro gusto. Eppure si assaggia.
Lei mangia il capitone?
Per devozione si dice. Un assaggio “per devozione”, tutto si tiene.
Nell’antica Grecia si organizzavano i banchetti pubblici.
La comunità si ritrovava alla tavola con i cibi consacrati alla divinità. Era il luogo della condivisione, della comunione. E chi se ne dissociava, come per esempio i pitagorici, lo faceva per una chiara scelta politica: prendere le distanze dal ceto affluente. Contestavano il potere costituito e non la sacralità della festa.
Se ci leggessero i vegetariani... neanche voglio pensare ai vegani.
Figli della società dell’abbondanza e di così tante buone letture da sviluppare in tavola una sorta di capriccio selettivo: questo non lo voglio, questo è grasso, questo non lo digerisco. Ecco: se posso dire sono il grumo nativo del cosiddetto radical chic. Elitario, selettivo, distante. Affrontare a tavola il nemico, il cibo dà dolore invece che gioia, isola invece di riunire.
Lei è nemico dei vegetariani.
Diamine: insolentiscono la buona tavola.
Dopo Natale c’è comunque la dieta. Lo diciamo al lettore apprensivo, che ha l’ansia della prestazione ma anche il timore che la prestazione poi finisca per condurlo dal medico.
Onorare la festa e poi la salute, mangiare e poi mitigare, essere capaci di equilibrio, misura. […]