QUESTA ME LA RIVENDO – BARTEZZAGHI: IL GRANDE EQUIVOCO DELLA BATTUTA, MATERIA PRIMA DELLA COMICITÀ PRONTA A ESSERE RITAGLIATA E INCOLLATA A USO E CONSUMO – LA CONDIZIONE DEL RIDICOLO E IL DIRITTO D’AUTORE SUL MOTTO DI SPIRITO: CHI E' L'AUTORE DELLE BARZELLETTE CHE RIPETIAMO?
Stefano Bartezzaghi per la Repubblica
Potrebbe non essere esagerato affermare che comici lo siamo tutti: quando volendolo, quando no. A volte perché umorista, a volte perché ridicolo, sta di fatto che con parole o atti prima o poi chiunque finisce per suscitare l'ilarità altrui. A questo proposito può tornare in mente il principio scolpito dal Maestro Altan nel marmo di una sua immortale vignetta: «Mi chiedo chi sia il mandante di tutte le cazzate che faccio».
Più modestamente, chi sarà l'autore delle scempiaggini che andiamo dicendo? Mai come in materia di comicità sì ha infatti la sensazione di non essere sempre pienamente responsabili di ciò con cui facciamo ridere gli altri.
La lingua inforca, come uno slalomista maldestro, e inciampa in una consonante; una musa ignota ci «ditta dentro» l'amenità da dire al momento giusto. Lapsus e arguzie, del resto, sono per Sigmund Freud due tipici linguaggi dell'inconscio e la pretesa di governarli non può che essere vana.
Però proprio Altan è la dimostrazione di come uno stile personale e inconfondibile possa esistere e proseguire nei decenni anche nel campo della comicità.
Dimostrazione felice, ancorché rara: si può trovare un caso analogo in Woody Allen, al cui magistero richiamano irresistibilmente trovate come la masturbazione che è sesso con qualcuno che si ama o i rapporti prima del matrimonio che fanno arrivare tardi alla cerimonia.
Ma se andiamo indietro di pochi decenni, chissà quante battute attribuite a Indro Montanelli erano di Leo Longanesi o Ennio Flaiano e, ancora più in là, chissà se diamo a Oscar Wilde quello che è di Oscar Wilde.
La parafrasi estrema del motto altaniano del mandante diventa, infine: «Chi è l'autore delle barzellette che ripetiamo»? Sappiamo che non si può mai determinare e indubbiamente è una fortuna non dover pagare i diritti al primo che ha messo Pierino dietro a un banco di scuola o un amante nell' armadio.
Fuori che in una canzone di Elio e le Storie Tese, nessuno si è mai fatto avanti per rivendicare l'ideazione del Fantasma Formaggino di una classica barzelletta infantile.
Eppure il nesso «Fantasma / Formaggino» e la rima con «ti spalmo sul panino» sono così peculiari da non potersi attribuire allo Spirito del Tempo.
Deve esserci stato un Buontempone-Zero, che però ha preferito non rivelarsi mai. Per vergogna? No, perché sapeva che il successo di una barzelletta sta proprio nella sua impersonalità e nella sua disponibilità a essere reinterpretata da tutti i buontemponi che la faranno (appunto) propria.
Il passaggio delicato è allora quello che avviene quando la parola «comico» cessa di essere un aggettivo e diventa un sostantivo.
La condizione del ridicolo che tutti ci riguarda produce uno statuto, una professionalità, con i suoi obblighi e persino la sua routine, crudelmente enfatizzata dall' invito romanesco all' incauto che si è avventurato sul palco: «Facce ride'!».
È il momento in cui le trovate dei guitti, ripetute e modificate nel tempo come canti di rapsodi, vengono fissate da un commediografo in un copione. Ed è anche il momento che la parola «copione» vede biforcarsi il suo significato: il copione è la versione «master» a cui si esempleranno tutte le «repliche»; «copioni» sono coloro che se ne approprieranno, fingendo di esserne gli autori originali.
A determinare la svolta è stata, come sempre, l'industria.
Sappiamo tutti che Denis Papin ha scoperto l'energia del vapore, inventando innanzitutto la pentola a pressione; ma non conosciamo il nome dell'inventore preistorico della pentola.
L' industria nomina i suoi detentori di diritti e ammette con questo la sua dipendenza dall' ingegno individuale. Va così a finire che chi ha un cognato autore televisivo, potrà magari riascoltare in uno show del sabato sera la sciocchezza che aveva detto per caso in un pranzo famigliare.
«Questa me la rivendo», si dice infatti quando si ascolta una battuta efficace. In certi casi il comico professionista «rivende», letteralmente, quel che si è sentito gratis per la strada. Si copiano a mani basse modi di dire, tic, atteggiamenti e, ovviamente, non c' è nulla di male.
Facendo quasi a caso nomi come Franca Valeri, Carlo Verdone, Checco Zalone, quel che richiediamo alla loro comicità è proprio la riproduzione «caricata» dei tipi umani che ci circondano, preti, professoresse, tamarri, «sòre».
Gli imitatori veri e propri, poi, si rivolgono non a tipi ma a individui: la Vanoni di Virginia Raffaele o il De Luca di Maurizio Crozza nei momenti magici della gag non sempre hanno bisogno di battute vere e proprie. A farci ridere basta una loro inflessione vocale, una smorfia.
L' equivoco allora nasce proprio dall' importanza che diamo alla «battuta», questa misura musicale che pretende di racchiudere in un contorno identificabile e denumerabile lo spirito che anima il discorso comico.
La singola battuta, coniata da uno e rubata da suo cognato; la materia prima della comicità industriale, pronta a essere ritagliata e incollata in articoli, blob, blog, su t-shirt e persino muri; la botta di arguzia che, più è «forte», più va in fuga verso l'impersonalità, oggi accelerata lungo i tramiti incontrollati della Rete, per sempre inseguita dal suo autore che implora di ricordarsi che è stato lui, il primo, a dire che «mia moglie è talmente tirchia che».
E quindi che diritto d' autore si può rivendicare sul motto di spirito, nell' epoca della sua epidemicità multimediale e telematica?