DOTTO! - ALBERTAZZI ERA L’ULTIMO DEI MOHICANI. L’ULTIMO DEI GRANDI MATTATORI DISCESI DAI LOMBI DELL’ATTORE OTTOCENTESCO. NON ERA MAI STATO VECCHIO, IMPROVVISAMENTE VECCHIO, E DEPRESSO COME GASSMAN, E NEMMENO AUTODISTRUTTIVO COME BENE. DIVO TELEVISIVO, ANCORA PRIMA CHE TEATRALE O CINEMATOGRAFICO, ANCHE SE LUCHINO VISCONTI S’INVAGHÌ DI LUI, SENZA MAI RIUSCIRE A FARNE IL PROPRIO AMANTE
Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
“Marlon Brando è morto/è scoppiato/otre pieno di genio/e anche Marcello/è morto/e Vittorio/e Carmelo/con le sue mille birre/e la sua/incommensurabile fonè/tutta gente eminente/della mia generazione/e io/che ci faccio qui/a trastullarmi/in questo nulla molle/pietoso e pigro/ tra mille?”.
Versi di Giorgio Albertazzi. Me li lesse nove anni fa nella sua casa romana, in jeans rossi e bretelle nere, per nulla celando il compiacimento. Aveva 83 anni. Attorno a lui morivano come le mosche. Amici e rivali. “Che ci faccio qui a trastullarmi in questo nulla molle, pietoso e pigro…”.
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Conoscendolo quanto basta, ci stava come un pascià, eccome, a trastullarsi in questo nulla. Si sarà stupito parecchio di ritrovarsi morto così pischello. E anche un po’ offeso. Non gli passava proprio per la testa di dover morire. Giorgio Albertazzi era convinto di aver fatto un patto con il demonio.
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Mica per dire. Da giovane si era occupato di ricerche esoteriche con un gruppo che aveva lasciato perché traviato da derive mansoniane. Che la nonna Leonilde fosse morta a 101 anni e la bisnonna Adalgisa a 106 lo rinforzavano nella certezza che avrebbe scavallato di parecchio i cento. “Romperò i coglioni ancora a lungo”, minacciava. E, invece…
L’ultima volta l’avevo incontrato un paio d’anni fa, novantenne, nel suo camerino di “Ballando con le stelle”. Aveva appena finito di piroettare con il suo elegante bastone d’osso, più dandy che mai, il panama a larghe falde, la camicia nera e il foulard a pois, l’amuleto con la moneta dell’imperatore Adriano al dito. Non ci aveva messo molto Milly Carlucci a convincerlo, il vegliardo. E non importa che non avesse mai ballato un tango in vita sua.
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Giorgio Albertazzi era l’ultimo dei mohicani. L’ultimo dei grandi mattatori discesi dai lombi dell’attore ottocentesco. Non era mai stato vecchio, improvvisamente vecchio, e depresso come Gassman, e nemmeno autodistruttivo come Bene. Divo televisivo, ancora prima che teatrale o cinematografico, anche se Luchino Visconti s’invaghì di lui, senza mai riuscire a farne il proprio amante. “Ero troppo intelligente per esserlo”, mi disse lui che bestemmiava la modestia.
Albertazzi amava la vita e se stesso. Il suo demonio lo alimentava ad accoppiarsi con tutto ciò che gli respirava dentro e attorno, a cominciare da se stesso. Non aveva alcun dubbio nel considerarsi il più grande di tutti. Riconosceva solo a Marlon Brando, forse, di eccederlo. Da “libertino casto” si è circondato di fanciulle devote fino all’ultimo e si vantava di aver ricevuto più amore di quanto fosse stato capace di dare. Inverosimilmente bello fino all’ultimo istante. Non hanno dovuto truccarlo neanche da morto.
Non aveva dubbi nel considerare il suo “Memorie di Adriano”, 600 repliche, lo zenit del teatro italiano. Arrestato per collaborazionismo con i fascisti e poi assolto, gli va riconosciuto di non aver mai posato da vittima. “I due anni di carcere sono stati i più interessanti della mia vita”, diceva. Aiutò a morire Anna Proclemer, forse la più importante delle sue complici di vita e di scena. Non sappiamo se qualcuno ha aiutato lui. Si diceva incuriosito dalla morte. Dell’inconcepibile nulla. Probabile, conoscendolo quanto basta, ci racconterà qualcosa dall’al di là.
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