LA VITA E' KURT - COBAIN, 50 ANNI DA ANTISTAR - È STATO IL JOHN LENNON DEGLI ANNI ‘90, MA NON HA SAPUTO SOPPORTARE IL PESO DELLA SUA IMMAGINE. “PREGAVA PER IL RAZZISTA, L’OMOFOBICO, IL MISOGINO. MA LUI NON ERA GESÙ E NON POTEVA SALVARCI” - VIDEO
Andrea Silenzi per la Repubblica
Il 20 febbraio il leader dei Nirvana avrebbe festeggiato il mezzo secolo. Ma la sua eredità resta scritta nelle canzoni e non nella baraonda mediatica che continua a girare intorno al suo nome
Ha ragione Frances Bean Cobain quando dice che degli anni 90 non gliene frega niente. Non gliene sarebbe fregato niente nemmeno a suo padre Kurt, che il 20 febbraio avrebbe compiuto 50 anni. Tutto il rumore che sentiva intorno era solo fastidio. In Serve the servants, una delle canzoni guida dell’album In utero, aveva già espresso la sua insofferenza per i riflettori sempre puntati addosso: “La rabbia giovanile ha pagato bene / ora mi annoio e sono vecchio”.
Alla fine, tutto quel baraccone mediatico che si muoveva intorno a lui, al suo legame con Courtney Love e alla cosiddetta scena di Seattle lo aveva sfiancato. Cobain non somigliava a nessuno, non era parte di nessuna scena. Amava profondamente la musica, ma non possedeva l’epica eroica di Eddie Vedder e dei suoi Pearl Jam o il gusto sarcastico e strafottente dei Tad. L’eroina per lui non era un ornamento rock’n’roll: aveva iniziato a prenderla perché era l’unico modo per non sentire i dolori strazianti provocati dalla sua ulcera. Per poter dormire.
cobain scrisse il disco delle hole
Figuriamoci quanto gliene sarebbe fregato delle idiozie sul ‘club dei 27’, sulla maledizione del rock’n’roll e su tutte quelle storie su cui è costruita tanta letteratura musicale. La sua tossicodipendenza non aveva niente di estetico e la sua vera preoccupazione era quella di non tradire lo spirito degli esordi, di non cadere nella piscina dorata dello star system.
“A suo modo, Kurt Cobain ha tentato di mostrarci come vivere – ha scritto Donna Gaines all’indomani del suicidio - pregava per il razzista, l’omofobico, il misogino. Ma lui non era Gesù e non poteva salvarci”. Forse davvero Cobain è stato il John Lennon degli anni 90, ma non ha saputo sopportare il peso della sua immagine. Semplicemente perché non lo voleva. Nei mesi precedenti al suicidio aveva mandato segnali di malessere profondo: voleva dare a In utero un titolo impossibile da equivocare come I hate myself and I want to die e si era fatto anche fotografare con un pistola in bocca. Il suo disagio di antistar si percepiva in ogni istante.
Se davvero ha lasciato un testamento forse bisogna cercarlo tra le pieghe delle sue ultime canzoni. Come in All apologies, dove tante domande vengono lasciate in sospeso: era lui a pretendere le scuse dei mass media? O voleva scusarsi con la piccola Frances? O si scusava col mondo per il suo prossimo addio?
Non è un caso che nella versione unplugged di quel brano, registrata nel novembre del 1993, pochi mesi prima del suicidio, la frase “all in all is all we are” diventò “all alone is all we are”. Dopo la sua morte, Courtney Love disse che non sapeva cos’altro avrebbe potuto fare per aiutarlo. Non aveva funzionato niente: l’amore, la piccola Frances, la terapia. “Lo stomaco ‘bruciante e nauseante’ di Kurt era il suo cuore sanguinante”, ha scritto Donna Gaines.
Frances Bean ha ragione sugli anni 90. Non è l’analisi di un decennio che può spiegarle suo padre. Né tantomeno le fandonie sui 27enni maledetti. Kurt era la rappresentazione del dolore, la voce della disperazione. Starà vicino a Billie Holiday, a Edith Piaf, a Janis, a Amy Winehouse, a Jeff Buckley. Tutte voci solitarie, assolute, capitate per caso nel loro tempo ma contundenti, straziate, eterne. E speriamo che almeno abbia trovato un po’ di silenzio: quaggiù il rumore si era fatto assordante.
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