"AIDA? STAVOLTA FINISCE ANNEGATA NEL PETROLIO. POCHINO, PERÒ: LA PROSSIMA VOLTA LEI E RADAMES LI VOGLIAMO PROPRIO SOMMERSI, COME L’IMMANCABILE UCCELLO NEL DISASTRO ECOLOGICO PROSSIMO VENTURO" – MATTIOLI: "LO SFERISTERIO DI MACERATA CELEBRA CENT’ANNI DI TEATRO CON UNA NUOVA PRODUZIONE DELL’OPERA DI VERDI. LO SPETTACOLO NON E' DEL TUTTO RISOLTO PERCHE' NELL'ULTIMO ATTO RISULTA PRUDENTE E NON ABBASTANZA EMOZIONANTE" - E SULLA REGIA DI CARRASCO E LA DIREZIONE DI LANZILLOTTA...
Alberto Mattioli per lastampa.it
Aida è un’opera colonialista? Verdi come Kipling? Il fardello dell’uomo bianco sulle spalle di Radamès, sterminatore di poveri etiopi in nome della Civiltà e del Progresso e del Petrolio, come per un Ballo Excelsior ancora più manicheo? Il dibattito è aperto almeno dai tempi di Edward Said e delle sue teorie sull’orientalismo e periodicamente riemerge come un tempio egizio dalle sabbie, con tutto il contorno di polemiche, regie “moderne” e censure.
All’Opéra di Parigi è stato istituito l’ufficio apposito, non sia mai che qualche minoranza si lagni, e ha partorito, appunto, una grottesca Aida politicamente corretta come se non lo fosse poi quella di Verdi, che a noi sorpassati usi a leggere i libretti prima di blaterarne sembra assai già schierata: con gli oppressi, non con gli oppressori.
Nel dibattito potrebbe entrare anche la produzione che ha inaugurato la stagione del centenario dello Sferisterio di Macerata, dove il teatro musicale debuttò appunto dal 1921 con un’Aida senza problemi di black face o di colonialmente corretto e ovviamente kolossal: “1.500 esecutori, 120 professori d’orchestra, 50 ballerine”, strillavano i volantini pubblicitari lanciati dagli idrovolanti sulle spiagge della vicina costa adriatica, come documenta la bella mostra sull’anniversario.
Perché la giovine e brillante Valentina Carrasco ambienta tutta l’opera qualche decennio dopo l’epoca in cui fu composta (ma non, ripetiamolo, per l’apertura del Canale di Suez: incredibile ma vero, c’è chi continua a scriverlo) e risolve il Trionfo, delizia del pubblico e croce dei registi, facendo entrare nel deserto un oleodotto componibile che il sottoproletariato etiope prigioniero deve montare, naturalmente a frustate.
Come dire: occhio che dietro la sbornia orientalista, la civilizzazione dei selvaggi e la Bibbia prêt-à-porter ci sono ben precisi interessi, e molto concreti. Nello stesso oleodotto, diventato prigione, Aida e Radamès moriranno annegati dal petrolio (pochino, però: la prossima volta li vogliamo proprio sommersi, come l’immancabile uccello nel disastro ecologico prossimo venturo).
Ma tutto con tocchi di ironia deliziosa, come Amneris che arriva fra le dune vestita da Mia Farrow in Assassinio sul Nilo (i costumi di Silvia Aymonino sono una festa per gli occhi) e si mette a giocare a golf, mentre la povera Aida le fa da caddie e Radamès si aggira fra le sabbie in casco coloniale. Lo spettacolo è divertente, ben fatto e non del tutto risolto, perché nell’ultimo atto risulta troppo prudente e non abbastanza emozionante.
Carrasco è però una delle rare registe d’opera “vere” attualmente esistenti, una delle poche che sanno muovere le masse e, come già nei Vêpres a Roma, risolvere il rebus dei balletti. Nell’“eterno sproloquiare” (il copyright è di Thomas Mann) sulle regie “moderne” o meno, chissà perché, le valutazioni tecniche non entrano mai, come se, indipendentemente dai jeans, non esistessero registi che sanno o non sanno il mestiere. Che le ultime due gestioni del Macerata Opera Festival siano state un enorme progresso, diciamo così, anche educativo, lo dimostra poi il fatto che questa Aida sia passata senza schiamazzi da parte dei povero Verdi e compagnia starnazzante.
La direzione di Francesco Lanzillotta è magnifica, com’era lecito aspettarsi ma, anche da parte dei lanzillottiani di lungo corso, forse non in questa misura. Una specie di quadratura del cerchio. Ormai l’Aida “lirica” la si annuncia anche nel paesello, e non ci sarà battisolfa che non spiegherà che questa non è un’opera kolossal ma un dramma intimo eccetera eccetera (cosa, peraltro, non vera, o vera solo in parte).
Lanzillotta fa sì un’Aida impressionista, sognante, sfumata, acquarellata, direi perfino accarezzata, ma quand’è il momento incalzante, teatrale e tutt’altro che tascabile. Di più. Verdi, che la sapeva più lunga di tutti, avrà anche scritto con Aida la sua opera più rifinita e raffinata, ma quando serve torna all’antico (ed è un progresso, anche se la frase celebre è stata sempre mal interpretata dai verdiani della domenica): la stretta del duettone Aida-Radamès del terz’atto, per esempio, è oggettivamente una cabaletta.
Tutti i direttori o quasi hanno paura di farlo sentire; Lanzillotta no, e anzi l’effetto è ancora più esplosivo in rapporto alle calibratissime raffinatezze che la precedono. Il tutto all'aperto e con un’orchestra ridotta e distanziata. Benissimo la Filarmonica Marchigiana, il coro di Martino Faggiani e la banda Salvadei sul palco, anche se prima dell’inizio, al ripassino finale, si sentiva esplodere fuori dallo Sferisterio una Marcia trionfale che poi alla recita è venuta sì bene, ma peggio. Chissà perché, a teatro succede sempre così.
La compagnia è stata evidentemente scelta con cura. Maria Teresa Leva è in sostanza un soprano lirico e da lirico che fa Aida canta: molto bene, peraltro, con fiati lunghi e un bellissimo do in pianissimo nei “Cieli azzurri”.
Però non si possono cantare piano proprio tutti gli acuti; e in generale il carisma non è debordante, anche perché Verdi o lo si canta sulla parola o non è Verdi (oppure sei la Montserrat).
Luciano Ganci alla prima non mi è parso in forma smagliante, e così è risultato un buon Radamès, solido ma non privo di eleganze di fraseggio: ha però tutti i mezzi per diventare un ottimo Radamès. Quanto a personalità, Veronica Simeoni stacca tutti: il registro grave non è esattamente quello che si vorrebbe, e nel terzetto si sente, ma per il resto è un’Amneris che si mangia il palcoscenico (e i costumi Anni Trenta le vanno a perfezione).
Marco Caria è un buon Amonasro, forse il personaggio più maltrattato dalla sedicente “tradizione”; ottimi Alessio Cacciamani come Ramfis vestito da talebano e Fabrizio Beggi come Khedivé d’Egitto in fez e decorazioni (ma, considerati i rispettivi volumi, forse si poteva invertire la distribuzione). Segnalo poi un buon Messaggero, Francesco Fortes, il che è una rarità, e una Sacerdotessa eccezionale. Si chiama Maritina Tampakopoulos, ho avuto l’occasione di ascoltarla anche in concerto e consiglio vivamente direttori artistici e d'orchestra, agenti, appassionati e chiunque sia provvisto di un orecchio di tenerla d’occhio.