
CHE NOIA LA SOBRIETA’ E IL BUON GUSTO: PERCHE’ OGGI ABBIAMO ANCORA PIU’ BISOGNO DEL TRASH-ENDENTE (IN BARBA A SORRENTINO)
Fabiana Giacomotti per "Il Foglio"
Di certo piacerà molto all'estero, dove resiste, inossidabile, l'immagine della Dolce vita e dell'indolente cinismo degli italiani, di quell'invincibile attrazione per l'abisso sensuale e per i suoi derivati estetici grevi che ha fatto anche di un serial stereotipato come "I Borgia" un fenomeno mondiale.
Ma ho la netta impressione che "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino sia arrivata in ritardo sui tempi e nei modi degli italiani. Che non fosse più aria di kitsch, si capiva già sul set lo scorso settembre, fra acconciature dimenticate dai tempi di "Drive In" e vistosa paccottiglia che il gruppo di nomi noti invitati a comparire rifiutava di indossare, non avendolo mai fatto in vita sua e non volendo accondiscendere a un'idea preconcetta.
Le polemiche seguite alla diretta televisiva del matrimonio ultracafone di Valeria Marini sono state la conferma che il demi-monde diverte sempre di meno, e il ritiro del nuovo governo all'abbazia di Spineto (cinque stelle, ma che ognuno paghi per sé) l'eccentrico suggello e il segnale della nuova tendenza.
Pare che i confessionali vadano riempiendosi di penitenti del sesto e del decimo comandamento, tutta gente che vorrebbe evitare di cedere al richiamo di lenzuola illecite, ma che pure ha raggiunto il punto di saturazione nei riguardi del consumo vistoso e di chi ne fa sfoggio. Addio Veblen, bentornato Savonarola, soprattutto quello della predica "sopra Aggeo" sulla consegna del governo agli umili, i non ambiziosi, i devoti alla causa del benessere comune.
In questa frenesia di rigore, siamo diventati intolleranti anche verso i miracolati, i velleitari, i Jep Gambardella che campano una vita attorno a un romanzo dimenticato, forse mai davvero andato oltre l'evocazione del titolo come accade al protagonista del film di Sorrentino. Aneliamo, o ci pare di crederlo che è la stessa cosa, al favoloso mondo migliore della meritocrazia e del buon gusto, al mezzo tacco della borghesia, alle femmine con lo chignon basso e agli uomini senza riporto. Ed è un vero peccato.
Un delitto contro la fuga liberatoria e immaginifica del cattivo gusto (penso a come vennero accolte le camicette nude look di Yves Saint Laurent alla fine degli anni Sessanta), ma anche uno schiaffo alla speranza di quel singolo momento, di quell'unica strizzatina d'occhio della Fortuna altresì nota come botta di culo che ci cambierà la vita, permettendoci di vivere finalmente al di sopra delle nostre possibilità . Intellettuali, soprattutto.
Tutti noi, americani meritocratici compresi che infatti misurano a grandi passi via Veneto cercando l'imprevisto fra le pizzerie a buon mercato, abbiamo bisogno dei Jep Gambardella chiagne e fotte che non voleva "partecipare alla feste, ma avere il potere di farle fallire". Vogliamo bagnarci nella fontana di Trevi come il "Marcelloooo come here" felliniano ed Edmund Yates, l'inventore del "giornalismo social" nell'Inghilterra della regina Vittoria , certo entrati nel bel mondo per la porta di servizio della cronaca mondana, quella dei lacché e dei cicisbei, ma comunque vezzeggiati alla stregua dei soggetti dei nostri articoli; vogliamo coltivare la speranza di trasformare la stessa paccottiglia che vorrebbero farci indossare in oro, oggetto di culto e fonte di ricchezza.
E invece eccoci di nuovo a confrontarci con un Jep Gambardella, con un altro burattino girovago sulla falsariga di Andy Warhol, un ennesimo uomo spento e frivolo che vorrebbe aiutarci a vedere le pecche della nostra società facendosene carico nei panni opposti di vittima e vendicatore. "E' tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio, il sentimento, l'emozione e la paura, gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile". Che déjà vu, che noia infinita. Abbiamo bisogno di guardare oltre l'orizzonte della rata del mutuo, adesso che facciamo fatica a pagarlo. E lo chignon ha l'orizzonte basso. Sarebbe il momento delle acconciature torreggianti della Medea di Piero Tosi, non delle damazze del "Roma" di Fellini trasformate in prefiche.
Miuccia Prada, giusto per citare l'incontestabile della sperimentazione radical-snob, ha appena raccontato divertita di aver ricoperto l'abito da ballo della sua Daisy Buchanan di cristalli di lampadario. Nessun altro avrebbe osato, forse giusto il premio Oscar Piero Gherardi che per i caroselli Barilla di Mina usò tubi di crine sintetico da ferramenta e per i costumi dei balletti Rai ganci da vele, ma a Zelda Sayre, modello originale dell'eroina del "Grande Gatsby" ora rivisitato da Baz Luhrmann e, appunto, da Prada, questo vestito sarebbe piaciuto da pazzi, e quel fumettone sconclusionato di film ancora di più.
Perché se adesso Zelda ci pare tanto chic e geniale, novant'anni fa tale non veniva considerata affatto. Una mezza matta, che tale sarebbe diventata per intero entro breve, di cui godere per le intemperanze la mattina, leggendo i quotidiani con il caffè. Un simpatico simbolo dell'autoaffermazione senza doti evidenti se non un certo stile nell'abbigliamento e nella danza. Il suo abito di nozze è una meraviglia anche per gli standard attuali, certo lontanissimo dal budello di pizzo bianco in cui si è strizzata Valeria Marini.
Ma il matrimonio Sayre-Fitzgerald nella cattedrale di St Patrick fu altrettanto sfarzoso, e la smania di Zelda e di "Scott" di inserirsi nell'élite newyorchese pari se non superiore, in quanto decisamente meglio mirata, a quella della soubrettona di passate fortune e di quel suo Gatsby di marito ("Ma davvero gli hanno spaccato le mascelle e le mani?" Si domandavano le invitate con un brivido compiaciuto, immaginandone le carezze ruvide) su cui viene purtroppo molto facile fare dello spirito.
Erano due geniali arrampicatori sociali, i Fitzgerald, apprezzati soprattutto per la loro sfacciataggine, se si considera che Scott, battezzato Francis Scott Key in onore del compositore della "Star Spangled Banner" che adesso Beyoncé intona così bene live e in playback, al momento delle nozze e della cacciata dal Biltmore Hotel per schiamazzi aveva a proprio credito un solo romanzo di successo, "Di qua dal paradiso", e un'unica campagna pubblicitaria andata a segno, "we keep you clean in Muscatine", per un'omonima lavanderia dello Iowa.
Lei viveva a "spinaci e champagne", invadeva le cucine del Waldorf per fare bisboccia coi cuochi e sfrecciava per la città sul tetto dei taxi. Alla fine di tutto, Scott lasciò scritto di non "sapere se io e Zelda siamo stati persone reali o personaggi dei miei romanzi", battuta perfetta anche nella bocca di un Jep Gambardella, ma la divina mondana Elsa Maxwell, che essendo rampichina di maggiore prontezza aveva la vista lunga almeno quanto la lingua, non si fece trarre in inganno da quello sfoggio di autocommiserazione e ne tracciò il ritratto più perfido e, probabilmente, più veritiero: "Un bel ragazzo biondo, incredibilmente fortunato, che ha bisogno di affidarsi sempre all'alcol per trovare un sostegno ai propri atteggiamenti vuoti e al proprio complesso di inferiorità ".
Eppure, nessun giornale, neanche quelli per cui scriveva Maxwell, si sarebbe fatto sfuggire la fotocronaca di un tuffo di Zelda in una qualche fontana cittadina o la soffiata su un party a sorpresa della "sofisticata coppia" quando ancora la sofisticazione era sinonimo di eccentricità . I lettori impazzivano per quei due che mettevano in pratica qualunque cosa a loro non sarebbe mai neanche venuta in mente.
Fossero stati un modello di dignità borghese che si faceva strada con l'impegno costante e quotidiano alla scrivania, una Elizabeth Barrett e Robert Browning per dire e nonostante fossero entrambi piuttosto attaccati alle cose terrene, sesso compreso, non avrebbero eccitato l'immaginario di nessuno. L'eccesso ha sempre avuto più successo della contenzione, e ben prima che Oscar Wilde ne facesse oggetto di uno dei suoi aforismi; ma è la scintilla della casualità , la nota dell'imperfezione, della precarietà , dello scivolone sottotraccia e prossimo, a rendere quel successo unico e indimenticabile, cioè un modello per tutti.
Di solito questi campioni del caso e per caso, questi Psy del "Gangnam Style", nascono e prosperano senza particolari spinte esterne: azzeccano il ballo del cavallo, lo vestono con la giacca sbagliata, quella che tutti hanno nell'armadio, ed è fatta (uno dei più grandi successi di marketing del mensile Esquire fu, tempo fa, la campagna della "ugly tie": i lettori vennero invitati a consegnare alla redazione la cravatta più brutta che avessero nell'armadio in cambio di una nuova, griffata. Ne vennero raccolte a sufficienza da organizzare una mostra itinerante).
Ma anche quando questo non accade, ogni generazione, generazione di crisi specialmente e come dimostra il boom di Hollywood negli anni della Grande depressione, provvede a creare la propria favolosa nullità , il proprio simbolo meraviglioso e ridicolo.
Deve continuare a credere che, con un piccolo, piccolissimo intervento del destino, il famoso treno che passa per tutti e basta saltarci sopra, le si apriranno le porte dorate della celebrità e dei suoi vantaggi derivati: copertine pagate sui giornali, alberghi e guardaroba gratuiti, cene offerte, idolatria delle folle, franchigia totale per qualunque eccesso, paparazzi in perenne attesa sotto casa e di cui lamentarsi sui media, fosse pure quel regno dell'insulto anonimo che è Twitter. "I pantheon non funzionano, meglio i pandemoni.
Le star in ascesa sui social sognano di avere, un giorno, il successo di Richard Benson o Truce Baldazzi", chissà chi saranno mai ma evviva, una possibilità in più, come sintetizzava il Foglio quotidiano di qualche giorno fa, in un'inattesa concessione al kitsch.
Vogliamo i nostri fenomeni inspiegabili, i nostri cafoni da riproduzione immediata, le nostre mezze tacche di cui sentirci migliori e per credere nel contempo di poterli emulare con uno schiocco di dita. Ogni secolo, ogni cultura e secondo regole e tecnologie del periodo, ne ha prodotti in numero sufficiente per ogni esigenza e per ogni ambizione: giornalisti di soave esiguità lessicale, modelle di strepitosa disarmonia, politici di orgogliosa ignavia, nobili per grazia ricevuta, e sopra tutti, inarrivabile, "quella gran culo di Cenerentola", plauso eterno agli sceneggiatori di "Pretty Woman".
Un conforto per chiunque, ed è la maggioranza, paventi l'impegno, la costanza, lo studio, o anche solo l'inclemenza di madre natura, come prerequisito indispensabile per ottenere per "scavallare", svoltare, smentire i pronostici. Il terzo non è il millennio del modello irraggiungibile, della Grace Kelly bella, alta, algida, ricca di nascita ed educata e della sua più plausibile imitazione, Gwyneth Paltrow, che non a caso vive un po' defilata e si fa tanto apprezzare per le sue ricette vegane.
E' il millennio di Kim Kardashian, la milionaria che ha fatto della propria esistenza un reality continuo, e che nelle forme simili a quelle di milioni di altre ragazze e nelle stesse pulsioni sciatte, in quel suo lamentarsi continuo e a telecamere accese per accidenti naturali come il mal di piedi o i gonfiori della gravidanza, vanifica l'irritazione e l'invidia per la sua irrefrenabile propensione allo shopping e soprattutto per la sua possibilità di soddisfarla.
Non un personaggio da "Grande Fratello", un poverocristo calato in un cliché da sceneggiatori esausti e infatti esauriti, ma l'artefice della propria gloria con tutti i mezzi a sua disposizione, fosse solo una cerimonia di nozze con assalto al buffet regolamentare e non a caso inserito nella sceneggiatura della "Grande bellezza". "Il nostro secolo è davvero il secolo dei matrimoni del secolo. Presenti perciò personalità del nostro secolo al matrimonio fra il portiere del Milan, al secolo Lorenzo Buffon, e la donna più loquace d'Italia, al secolo Edy Campagnoli". La telecronaca porta la firma di un anonimo giornalista Rai del 1959. Si può trovare sul sito di Rai Storia, ma pure su YouTube. E lascia i Jep Gambardella indietro di chilometri.
















