LA RISPOSTA E’ DENTRO DI TE MA E’… SBAGLIATA! – TORNA CORRADO GUZZANTI: "NON SONO UN FETICISTA DELLA NOSTALGIA, IL TEMPO PASSA E UNO SI INCA**A. A 53 ANNI AVREI DOVUTO FARE MOLTE PIU’ COSE. FORSE A FREGARMI E’ STATA… - LA SATIRA? TRANNE CROZZA CHE HA UN SUO PROGRAMMA, GLI ALTRI VANNO IN TALK SHOW SERI IN CUI C’È IL MOMENTO ZOOLOGICO. PARLA IL MATTO, TUTTI RIDONO E POI IL CONDUTTORE DICE “GRAZIE, ORA TORNIAMO ALLE COSE SERIE” – TRAILER DEL FILM
Malcom Pagani per Vanity Fair
A 53 anni, Corrado Guzzanti ha scoperto: «L’enorme divertimento della deresponsabilizzazione. Per molto tempo, solipsisticamente, ho fatto solo cose mie e ho lavorato sulla satira da autore. Essere chiamato a recitare soltanto come attore è stato divertente». Il film, una commedia scorretta, feroce e molto divertente si intitola La prima pietra, lo ha girato Rolando Ravello e Guzzanti interpreta il preside di una scuola elementare chiamato a organizzare una recita di fine anno: «In cui pateticamente, con l’intenzione di accontentare tutti e non far torto a nessuno, tutte le rappresentazioni religiose, dagli angioletti ai monaci buddisti abbiano la loro vetrina senza disequilibri». Basterà una pietra lanciata nell’ora di ricreazione e senza volontà di dolo da un bambino musulmano per rompere una finestra e trasformare i pezzi di vetro in ferite, equivoci e litigi che feriranno «l’idea ingenua ed ecumenica che vorrebbe l’integrazione simile a uno slogan di facile attuazione».
Dietro al suo impianto marcatamente teatrale, che film è La prima pietra?
«Me lo sono chiesto anche io. Direi che è un film che gioca su molti registri. A volte è molto leggero, anzi quasi sciocco e altre è grottesco. Il tema dell’integrazione, accompagnato da digressioni che alleggeriscono l’assunto, è attuale. E in una maniera abbastanza lieve, La prima pietra demolisce la teoria semplicistica seconda la quale le guerre sono nate da equivoci e mancanza di comprensione e che in fondo basti parlarsi, conoscersi e rispettarsi per poter convivere tutti in armonia».
Non è così.
«E infatti basta un gesto minimo, una sassata che rompe una finestra e ferisce un bidello che si trova a passare lì per caso per far esplodere una guerra nucleare. Al netto della metafora, il quadro è abbastanza realistico. Siamo tutti immersi in una perenne polveriera e ogni tentativo di soluzione facile è destinato non solo a fallire, ma a produrre effetti nefasti e a peggiorare la situazione».
Il suo preside, scisso tra bassezze, maniacalità e doveri del ruolo si fa ricordare.
«Non mi chiedevano di dar vita a una caratterizzazione- la mia condanna- né di incarnare un personaggio che per necessità fosse volutamente sopra le righe. Sono stato più realistico di altre volte ed è stata una gran gioia interpretarlo e lavorare in gruppo. Sono in una fase della vita in cui covo un gran desiderio di aprirmi, ascoltare gli altri, confrontarmi».
Come ha tenuto a bada l’autore che c’è in lei?
«A fatica, perché l’autore non dorme mai. Mi dovevano tenere a bada. A volte mi sono impossessato del testo perché questo è un film in cui il lavoro sugli attori permetteva più di una variazione sul tema. Da Carnage a Le prenome, il cinema recente tutto svolto in una stanza ha dimostrato che si possono raggiungere risultati eccellenti».
Non capita spesso?
«Di solito al regista va bene qualunque cosa fai: “Sono stato efficace?” chiedi e quello ti dice sempre: “Perfetto”. Per alcuni la recitazione è meno importante che la nebbia che sullo sfondo rifletta a dovere la luce del lampione. Qui no. Qui vedi le facce, la metamorfosi, la cattiveria crescente, l’esasperazione».
Un tempo sosteneva che nonostante gli sforzi, ad avere una grande opinione di sé proprio non riusciva.
«Da ragazzo, quando mandavo fumetti alle case editrici e in coincidenza con il rifiuto scrivevo lettere adiratissime in cui con somma presunzione li rimproveravo di non aver saputo cogliere il genio che si nascondeva dietro il disegnatore, di me avevo un’opinione altissima. “Questa è modernità cari signori, non avete capito un cazzo!”. Poi cominciai a scrivere cose serissime che alla prova della rilettura mi parvero mostruose. Allora le volsi in chiave ironica. Le mie prime parodie nacquerò così. Si cresce e per fortuna si capisce che non è il caso di prendersi troppo sul serio. Chi fa il mio mestiere ha uno spiccato senso del ridicolo che comincia sempre da se stessi».
C’è chi sostiene che lei sappia essere al tempo stesso ilare e inquietante.
«Non credo che tra la parodia e le cose serie ci sia poi questa gran differenza. È tutta una questione di linguaggio e di logiche invertite ed il testo umoristico, per struttura, è sempre meno libero. La mia creatività funziona sia quando è libera, sia quando è costretta a esprimersi in dei binari, ma credo di aver detto cose più serie cercando di far ridere rispetto a quando cercavo di essere serio».
Che lavora fa esattamente Corrado Guzzanti?
«È una domanda a cui non so rispondere. Quando mi domandano che lavoro faccia mi viene sempre in mente la risposta che dà Woody Allen al poliziotto che lo ferma per un controllo e gli chiede la patente. Prima la fa a pezzi, poi si giustifica: “Non la prenda sul personale, è che ho sempre avuto un grande problema con l’autorità”».
Quindi?
«Quindi nel mio lavoro non c’è nulla di razionale. Osservo quello che ho intorno e prendo appunti. L’osservazione dà vita a dei meccanismi che scattano a prescindere dalla mia volontà e i personaggi che nascono sono sempre delle collezioni di cose che hai registrato e annotato, mentalmente e inconsciamente».
Che fine fanno questi personaggi?
«Si compongono in una maschera, ho sempre lavorato creando dei Frankestein che poi a un certo punto prendevano vita e diventano autonomi. Creare personaggi è un percorso misterioso che ha a che fare con l’istinto. Anche nelle cosiddette imitazioni. Una volta acciuffate le peculiarità di un personaggio reale, l’ho sempre reinventato prendendomi la libertà di tradirlo e trasformarlo fino a renderlo quasi irriconoscibile».
C’era un tempo in cui tra pinguini sodomiti e suore fuori dalla tradizione la censura era la regola.
«In un’altra epoca censuravano tutto con grandissimi complimenti: “Bravissimo, ma come ti è venuta? È geniale”. Poi non andava in onda, ma con un sottofondo di letizia e tenue compiacimento per l’invenzione che non avrebbe mai visto la luce».
Oggi c’è più o meno libertà?
«Sicuramente molta di più. Se devo riflettere sulla satira non direi che oggi qualcuno viene censurato ma che, soprattutto con il dominio dei social network, la satira è diventata un linguaggio universale perché tutti sono liberi di dire tutto con un visibile abbassamento dell’efficacia. La satira non è più un mètalinguaggio, ma è stata implementata dal linguaggio di tutti, a partire dei politici che una volta erano oggetto di satira. Oggi puoi essere liberissimo, ma al tempo stesso ci sono molte meno trasmissioni satiriche e non perché qualche grigio burocrate le impedisca, ma perché è cambiato il rapporto con il satirico per cui tranne rare eccezioni alla Crozza che ha un suo specifico programma, gli altri vanno errabondi in talk show seri in cui c’è il momento zoologico. Parla il matto, tutti ridono istericamente e poi il conduttore dice “grazie, adesso torniamo alle cose serie”».
CORRADO GUZZANTI PADRE PIZZARRO
Le sembra di aver perso tempo in questi anni?
«Tempo lo perdevo al Liceo quando facevo sega a scuola, in classe non mi vedevano mai e mi bocciarono meritatamente. Credo semplicemente che a un certo punto ho ritenuto che un certo ciclo fosse concluso e mi sono ripreso la mia libertà personale per non ridurmi a diventare un juke-box che ogni giorno deve spacciare una battuta e un commento. Una trappola micidiale. Per fare satira ho bisogno di capire profondamente le cose perché una satira di tipo cronachistico che si consuma il fretta sull’ultima dichiarazione di Salvini non mi interessa.
CORRADO GUZZANTI PADRE PIZZARRO
Mi dovrei comunque applicare con più frequenza? Certamente. Ma sono reduce anche da una serie di disavventure fisiche che mi hanno impedito di dedicarmi a fondo a ciò che mi interessa. Adesso sono passate e lavoro, come ho sempre fatto fin da quando arrivò il primo boillettino della Siae, pensai a un errore e quasi piansi dalla commozione».
Le capita mai di annoiarsi?
«Conosco a fondo la noia e la considero una sconfinata fonte di ispirazione. Sa che quando ciondolo in giro e sono in macchina rischio di beccarmi una multa o di schiantarmi perché prendo appunti sulle note del telefono? Accumulo una gran quantità di materiale che poi magari diventa messa in scena anni dopo. Mi rendo conto che è un metodo lento, che somiglia allo sketch dello stecchino di Vianello e Tognazzi, ma c’è sempre un lavoro che magari in quel momento non ha senso, ma che poi lo acquisterà dopo. Sono sepolto da tonnellate di carta. Un giorno, di questo materiale borgesiano, qualcosa farò».
Aveva molti romanzi nel cassetto.
«Probabilmente sbaglio ad aspettare, e quelli sono la vera opera d’arte. Corrado Guzzanti, diari, 2005, 2007. Sente come suona bene? (Ride). Guardi, il lavoro che faccio continua a piacermi, ho un dilemma sulla satira strettamente intesa come tale e ho l’impressione che in questo momento alcune cose per durare e penetrare senza diventare carta straccia abbiano bisogno di una narrazione».
Le sembra di aver perso tempo in questi anni?
«Il mio pentimento è che alcune cose invecchiano. Hai un’idea, la rimandi e quell’idea col tempo perde di significato. Uno dei miei difetti è che sono sempre un po’ in ritardo sulle cose. Esiste sempre un momento in cui bisogna stringere e buttarsi, invece di aggiungere un altro post it a un’ipotesi virtuale. Il tempo passa e uno si incazza. A volte mi dico: “Hai 53 anni e avresti dovuto fare molte più cose. Forse a fregarmi è stata l’eccessiva libertà. In gruppo questo atteggiamento da Godot me lo permettevo di meno. Comunque quel materiale, in un film, in un romanzo o in un libro di racconti prima o poi lo userò».
CORRADO GUZZANTI GIANNI LIVORE
Un tempo voleva persono dimenticarsi di esistere. Con gli anni è riuscito a starsi più simpatico?
«Non rivedo mai le mie cose, se non costretto con la pistola alla tempia e
faccio un enorme fatica ad apprezzare le mie cose sul momento, poi col tempo e il giusto distacco imparato a godermele e persino ad apprezzare me stesso. Il mio ideale sarebbe lavorare, chiudere la porta, andare a casa e non parlarne. Ho imparato a fare i conti con il fatto che sia impossibile».
Cos’altro la stanca rispetto a ieri?
«Invecchiando, l’introspezione e l’analisi continua di me stesso è diventata tremendamente noiosa. Mi fa piacere però che i quindicenni, un po’ come avevo fatto io a mio tempo con i Monthy Python, scoperti quando si erano già sciolti da un pezzo, abbiano riscoperto le mie cose e siano diventati quasi collezionisti. Significa che certi momenti avevano senso e valore, e sostenere che sia indifferente alla cosa mi renderebbe ipocrita. Più del passato però mi interessa di più cosa farò domani. Non sono un feticista della nostalgia».
Come mai?
«Se amo il passato è perché so che certe fasi sono chiuse e finite per sempre, ma non le rimpiango e non sono prigioniero della memoria».
È felice?
«Domanda complessa. Per me malinconia e felicità sono quasi la stessa cosa. Mi capita spesso di essere in uno stato di malinconia e al contempo di divertirmi come un pazzo. Una parte di me è distaccata dai moti dell’animo e crescendo mi sembra di aver capito che percepisco l’orizzonte comico e drammatico senza scarti. La malinconia non mi impensierisce, so che finirà e so che è nettamente separata dall’identità. È solo un passaggio di tempo. Lo attraverso e lo vivo senza dargli troppa importanza».
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