NON TI PARLO! - CON SMS, FACEBOOK, TWITTER, WHATSAPP E CHAT DI OGNI TIPO, CI SIAMO DISABITUATI A USARE LO SMARTPHONE PER PARLARE

Michela Proietti per Il Corriere

Siete su Twitter. Magari sfogliate una rivista. O state aprendo le email accumulate nel vostro computer. Insomma, niente che non possa essere rinviato. Squilla il telefonino, ma voi non rispondete. Tasto rosso (nella più drastica delle ipotesi), suoneria silenziosa (per dribbling educati).

Perché? «Ho guardato la chiamata senza toccare il mio cellulare. Eppure ero tranquilla in ufficio, in un momento di pausa, senza neppure gli schiamazzi dei bambini intorno: ma la chiamata di mia cugina Stacey pretendeva da me un livello di tempo e di attenzione che non volevo darle».

Caeli Wolfson Widger, scrittrice californiana, si è confessata sul New York Times in un articolo che chiarisce molte cose, a partire dal titolo «Why I silence your call, even when I am free», vale a dire perché non ti rispondo benché non abbia nulla da fare. «Il riflesso è stato quello di evitare la chiamata, eppure le conversazioni con Stacey sono state sempre stimolanti, direi tra le migliori della mia vita».

Diverso sarebbe stato se Stacey avesse scelto un sms, un messaggio su Facebook, una conversazione via Whatsapp. «La maggior parte delle mie comunicazioni ogni giorno avviene sui social network o via sms, e in quel caso sì che sono rapida a rispondere. Ma il trillo di una chiamata suona inaspettato». E quasi indesiderato.

La scena è successa (almeno una volta nella vita) a tutti: il display si illumina, mettiamo a fuoco il numero, non lo abbiamo rubricato e proprio non riusciamo a ricordare di chi sia. E solo una volta che abbiamo risposto, abbiamo la certezza che non dovevamo rispondere. La novità, ora, è che anche la chiamata di Stacey (che una volta equivaleva più o meno al quarto d'ora di ricreazione) è diventata molesta.

All'inizio è stato il «boicottaggio» dei numeri privati, che sembravano nascondere quasi sempre una seccatura. Ora si è arrivati alla commercializzazione di software che una volta installati nel proprio cellulare gestiscono una lista nera in cui vanno inseriti i numeri di telefono delle persone a cui non si desidera rispondere.

«Non conosco il mio indirizzo email, non rispondo mai al telefono quando suona, non so usare un cellulare. E ricordo solo il primo numero che avevamo quando io e mia moglie ci sposammo, 45 anni fa: 46 40 60», confessava all'indomani del Nobel lo scrittore Mario Vargas Llosa, rivelando un'indole schiva e riservata.

Ma una simile inclinazione intimista non coincide con le nostre abitudine: iperconnessi, multitasking, con profili Twitter, Facebook e Instagram belli pimpanti, più linee telefoniche, un account Skype e in qualche caso qualche blog da gestire, siamo più che sedotti dalla comunicazione. Eccezione fatta per quell'eccesso di tempo in più richiesto da una telefonata.

«Ricevo all'incirca 100 chiamate al giorno, e in tutta sincerità rispondo al 40 per cento di queste», ammette Antonio Gallo, direttore della comunicazione di Pirelli PZero, titolare di una celebre agenda di numeri. Un po' per scherzo («le radiazioni del telefonino fanno male»), un po' sul serio («siamo in piena ubriacatura da comunicazione, ricarico la batteria del cellulare tre volte al giorno...»), la strategia è chiara e ha delle regole: «Rispondere sempre alle telefonate di lavoro e a quelle dei familiari».

Per il resto c'è Whatsapp. «In alcuni casi è persino più funzionale: se devo comunicare un progetto con la chat riesco a inviare una foto, un disegno... A voce dovrei impiegare il doppio del tempo per spiegarmi».

Il tempo è il grande totem dietro alla nuova religione della comunicazione corta. «Ci sono di quei prolissi che ti tengono trenta minuti al telefono quando ne occorrerebbero appena cinque. Per altri funziona come una seduta dallo psicologo: ho un'amica che mi inchioda regolarmente mezz'ora per sfogarsi dei suoi guai... Ma appena provo a confidare anche io le mie ansie, si stufa e trova una scusa per riagganciare».

C'è persino il sospetto che l'ubiquità della comunicazione mobile abbia tolto romanticismo: se ai tempi della cornetta si passavano giornate intere in casa in attesa di una telefonata, adesso si ignora lo squillo che ci insegue dappertutto. E si delega alla chat. «Le stesse persone che si conoscono in discoteca, a cena da amici comuni, se vogliono rivedersi non se lo dicono in faccia, ma aspettano di essere lontani, e a quel punto via di Whatsapp!».

Due telefonini e nessuna risposta: il presentatore Francesco Facchinetti, attivissimo sulle piattaforme social, confessa di rispondere solo alle telefonate più strette, quelle della mamma e della madre di sua figlia Mia. «Al massimo richiamo dopo le 20, ma durante il giorno lavoro e non voglio distrazioni. Chi sta troppo al telefono non combina nulla, mio nonno ha costruito la sua piccola fortuna stando un minuto al giorno al telefono».
Chi invece con le telefonate ci lavora, ne ha rispetto.

Giuseppe Cruciani, conduttore della «Zanzara», confessa di rispondere a ogni chiamata ricevuta. Anche fuori dalla trasmissione. «Vede che ho risposto anche a questa telefonata e non sapevo chi poteva esserci dall'altra parte! Non sono un diffidente, rispondere mi pare ovvio, se non posso farlo lascio squillare a vuoto e dopo un po' richiamo», dice il giornalista che si attesta intorno a una media di 50 chiamate al giorno. E che ovviamente non fa a meno di sms, Whatsapp e chat. Senza troppe dietrologie. «Una volta ce l'avevamo con i telefonini che toglievano spazio agli incontri, ora con i messaggi che sostituiscono le chiamate... Il romanticismo o c'è o non c'è, uno può esprimersi romanticamente anche in chat, che differenza fa?».

Lo schermo, al contrario della voce, mette in gioco un «low emotional risk», un investimento emotivo modesto: poco impegno, una presenza su vari tavoli di conversazione, controllo superficiale delle comunicazioni. Caustico il commento del sociologo Franco Ferrarotti: «Si parla di multitasking attention, la specialità dei giovani d'oggi, chattare, navigare, messaggiare, postare... Insomma molti informatissimi idioti! Cesare alla testa delle sue legioni a marce forzate trovava anche il tempo di scrivere un trattatello di retorica... Ma forse noi dovremmo concentrarci su una singola attività, magari proprio su una telefonata».

Alla fine, anche nell'analisi della Widger prevale la tesi che rispondere conviene sempre: una telefonata non presa è una comunicazione mancata. «Stacey si era appena lasciata con il marito, era andata a vivere in un monolocale e aveva un disperato bisogno di essere ascoltata. Da quella volta mi sono ripromessa di rispondere a tutte le chiamate».

Se volete imitarla, vi saranno utili le regole di chi non risponde proprio mai. Come il sociologo Enrico Finzi, titolare di un cellulare dal 1990 distribuito a studenti, colleghi, giornalisti oltre che familiari e amici. «Rubricate tutti i numeri a cui volete rispondere, dopodiché stilate una lista dei più verbosi, quelli che dicono dieci volte "ti saluto" e poi non ti salutano mai veramente».

 

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