AVVISATE RENZI CHE IL NUOVO AMMINISTRATORE DELEGATO DI ENI, CLAUDIO DESCALZI, RISULTA INDAGATO, CON SCARONI E BISIGNANI, DALLA PROCURA DI MILANO PER CORRUZIONE DI POLITICI E BUROCRATI IN NIGERIA

1. TANGENTI ENI PER IL PETROLIO IN NIGERIA: IL PM INDAGA L’AMMINISTRATORE DESCALZI

Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella per “Il Corriere della Sera

 

La prima importante nomina pubblica dell’era Renzi, quella del successore di Paolo Scaroni al vertice di Eni, è già investita da una pesante inchiesta giudiziaria tra Milano e Londra: il nuovo amministratore delegato Claudio Descalzi è indagato dalla Procura lombarda (insieme al nuovo capo della divisione Esplorazioni del colosso petrolifero, Roberto Casula) per l’ipotesi di reato di «corruzione internazionale» di politici e burocrati in Nigeria. 
 

CLAUDIO DESCALZICLAUDIO DESCALZI

Affiora dalle carte con le quali ieri la «Southwark Crown Court» di Londra, accogliendo una indicazione che si ignorava fosse stata rivolta nelle scorse settimane dall’autorità inquirente italiana, ha sequestrato in via preventiva all’intermediario nigeriano Emeka Obi due depositi anglo-svizzeri di 110 e di 80 milioni di dollari: un quinto del prezzo di 1 miliardo e 90 milioni di dollari che l’Eni nel 2011 (con Paolo Scaroni amministratore delegato e Descalzi capo della divisione Oil) pagò al governo di Lagos per rilevare dalla società nigeriana Malabu la concessione di Opl-245, sigla del campo di esplorazione petrolifera la cui concessione nel 1998 l’allora ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete si era autoassegnato (dietro prestanome della società Malabu) al saldo di 20 milioni. 
 

Il colpo di scena londinese spariglia le carte che sembravano in tavola a Milano almeno fino a luglio, allorché i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro avevano notificato a Eni (per responsabilità amministrativa in base alla legge 231) una informazione di garanzia che non aveva granché allarmato il colosso dell’energia, sicuro nel rimarcare che «l’unico interlocutore dell’operazione era stato il governo nigeriano, senza intervento di alcun intermediario».

 

Indagato a Milano era del resto solo Gianluca Di Capua, procacciatore d’affari amico di Luigi Bisignani, a sua volta ascoltato solo come teste al pari di Scaroni. Adesso invece, sulla scorta di sopraggiunti elementi, non solo sono stati indagati Descalzi-Scaroni-Bisignani, ma la Corte di Londra supporta il sequestro dei 190 milioni nigeriani con l’orientamento che davvero possa esserci stata una corruzione Eni di pubblici ufficiali africani (come l’ex ministro Etete e il figlio dell’ex presidente Abacha) tramite intermediari nigeriani (Obi), russi (Agaev) e italiani (Di Capua e Bisignani). 
 

Matteo Renzi Matteo Renzi

Sarebbe dunque una megatangente del 19% sul prezzo del giacimento a sovrapporre nello stesso «film» illecito due «fotogrammi» che invece la storia ufficiale della negoziazione descriveva appartenere a due «film» diversi e leciti. Nel primo, risalente al 2010, già si sapeva che Eni, per negoziare con la Malabu (società nigeriana senza alcuna struttura ma titolare del tesoro di concessione), avesse tessuto contatti anche con mediatori e consulenti.

 

E lo si sapeva per intercettazioni di 4 anni fa nell’inchiesta dei pm napoletani Curcio e Woodcock sulla galassia-Bisignani (il quale alla fine patteggerà per altre vicende 1 anno e 7 mesi per associazione a delinquere, favoreggiamento, corruzione e rivelazione di segreto): dalle spiegazioni di Bisignani e Scaroni era infatti emerso che nel 2010 l’ex ministro nigeriano Etete aveva mobilitato un suo contatto italiano, Di Capua, per piazzare al meglio la concessione petrolifera lucrata anni prima dietro lo schermo della Malabu.

Paolo Scaroni Paolo Scaroni

 

Di Capua aveva subito coinvolto Bisignani, sapendolo molto influente su Scaroni. E Bisignani, attratto dalla prospettiva di avere con Di Capua un ritorno economico in caso di successo, aveva davvero interceduto con Scaroni, il quale lo aveva introdotto a Descalzi, allora capo divisione Oil.

 

Le intercettazioni coglievano Descalzi preavvisare Bisignani che un certo giorno l’affare in Nigeria sembrava concluso, e Bisignani subito avvisava Di Nardo. Ma questo prima schema di trattativa diretta con la società nigeriana Malabu naufraga e l’affare non va in porto, con grande irritazione (pure intercettata) di Di Capua e Bisignani. 
 

A novembre 2010 comincia invece il secondo «tempo» ufficiale: la trattativa diventa indiretta e in teoria super trasparente perché Eni non ricorre a intermediari, ma tratta esclusivamente con il governo nigeriano che si offre poi di girare i soldi alla società Malabu, regolando i tanti aspri contenziosi locali.

 

Ed è quindi solo al governo che nell’aprile 2011 Eni paga il prezzo di 1 miliardo e 90 milioni di dollari, mentre Shell ne versa altri 200. Il massimo della trasparenza? Una causa civile a Londra nel 2013 sembra farne dubitare. 
 

bisignanibisignani

Infatti il mediatore nigeriano Obi, che con Di Capua era intervenuto nella prima negoziazione fallita, a Londra fa causa all’ex ministro del petrolio Etete che non gli riconosce il compenso dovutogli per la mediazione che Obi e Di Capua sostengono di avere svolto in maniera decisiva per l’affare concluso dall’Eni. E nel 2013 Londra dà ragione a Obi e costringe la Malabu a versare a Obi 110 milioni (mentre di altri 80 Obi sostiene che in parte siano per Di Capua).

 

Il mediatore nigeriano deposita infatti copioso materiale per dimostrare di aver avuto il ruolo che rivendica: e spuntano anche moltissimi sms e email con Descalzi, nonché incontri come la cena (Obi, Agaev, Etete e Descalzi all’Hotel Principe di Savoia di Milano) che ad avviso dei giudici inglesi «rappresentava un avanzamento significativo per la società Malabu e dimostrava a Etete quello che le entrature di Obi dentro l’Eni potevano fare ottenere alla Malabu». 
 

Ora Londra ha convocato per lunedì prossimo una udienza alla quale potrà intervenire chi ritenga di avere titolo sui 190 milioni in sequestro. Sinora la posizione di Eni è quella cristallizzata nelle assemblee e in una audizione di Scaroni in Senato: «Totale correttezza» perché «come sempre non abbiamo dato una lira a nessuno, non abbiamo usato intermediari, e abbiamo fatto la transazione solo con lo Stato nigeriano». 

 

2. LA PRIMA VOLTA A LAGOS COSTÒ 360 MLN DI MULTE

L.Fer. e G.Gua. per “Il Corriere della Sera

 

Comunque vada a finire, una cosa è certa: la Nigeria non porta bene all’Eni. Già una volta, nel 2009, il colosso petrolifero è rimasto impigliato in una indagine — sempre della Procura di Milano e del pm Fabio De Pasquale — sul consorzio Tskj formato da Snamprogetti con l’americana Kbr, la giapponese Jgc e la francese Technip accusato di aver stanziato tra il 1994 e il 2004 circa 182 milioni di dollari destinati a politici e burocrati nigeriani per aggiudicarsi appalti da 6 miliardi di euro per i sei impianti di estrazione e stoccaggio del gas a Bonny Island. 
 

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Questa indagine, alla fine, in Italia è giudiziariamente costata al cane a sei zampe «soltanto» 600.000 euro di sanzione pecuniaria e (sempre in base alla legge sulla responsabilità amministrativa delle imprese) la confisca di 24 milioni di euro quali illecito, ma è stata assai più indigesta negli Stati Uniti: Snamprogetti Netherlands BV ha infatti dovuto versare 240 milioni di dollari per patteggiare con il Dipartimento di Stato (che aveva già raccolto più di un miliardo da altri soggetti internazionali), mentre Snamprogetti ed Eni ne hanno dovuti dare 125 alla Sec, l’autorità Usa di vigilanza sulla Borsa. 
 

Un’altra inchiesta arriva in Algeria per sette contratti, e per altrettanti appalti da circa 8 miliardi di euro, che avrebbero fatto finire nelle casse della Saipem, gruppo Eni, profitti per un miliardo di euro. Solo che ad oliare il percorso che fece ottenere gli appalti, secondo la Procura, sarebbe stata una tangente da 197 milioni di dollari.

 

pietro varonepietro varone

Una mazzetta celata dietro le intermediazioni fittizie della società di Hong Kong «Pearl Partners Limited» che era gestita dall’algerino Ourayed Samyr, ma che per gli investigatori apparteneva al suo ricco connazionale Farid Bedjaoui, chiamato «Il giovane», che, a sua volta, avrebbe fatto capo a «Il vecchio», che altri non era che l’allora potente ministro dell’Energia algerino Chekib Khelil.

 

Ad agosto 2013 i pm hanno chiesto a Singapore di bloccare oltre cento milioni sui conti di Bedjaoui, ricercato con lo stesso mandato di cattura internazionale che ha portato in carcere l’ex manager Saipem Pietro Varone. Un’inchiesta in cui sono indagati, tra gli altri, anche l’ex amministratore delegato di Saipem Pietro Tali e l’allora ad di Eni Paolo Scaroni. 
 

Ancora Eni nell’indagine su una tangente per appalti petroliferi in Kazakhstan: 20 milioni di dollari che sarebbero serviti ad aprire la strada ad un investimento di Agip Kco. La Procura aveva chiesto l’interdizione dell’Eni per 18 mesi dalle attività in Kazakhstan, ma si era vista dire di no dal Gip e dalla Corte d’appello. 

 

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