MCKINSEY E' AL GOVERNO - E’ STATO VITTORIO COLAO, CHE A MCKINSEY HA LAVORATO, A SPINGERE PER IL CONTRATTO ALLA MULTINAZIONALE AMERICANA PER UNA COLLABORAZIONE SUL RECOVERY PLAN - “L’ESPRESSO”: “COLAO HA ACCETTATO IL MINISTERO ANCHE PER VENDICARSI DELLA FIGURACCIA A CUI L’HA ESPOSTO IL GOVERNO DI CONTE. NON POTEVA RIFIUTARE, POI, PERCHÉ L’HA COOPTATO IL QUIRINALE. HA RICEVUTO UN MINISTERO SENZA PORTAFOGLIO, CIOÈ SENZA SPESA, CON DELEGHE SCARNE, CIOÈ VUOTE DI POTERE E ALLORA” - LA RETE DI EX MCKINSEY IN ITALIA
Vittorio Malagutti e Carlo Tecce per https://espresso.repubblica.it
L’avvolgente McKinsey, la multinazionale americana delle consulenze, non ronza attorno al governo di Mario Draghi, con sommo dispiacere del medesimo Mario Draghi. McKinsey è nel governo, McKinsey è Vittorio Colao, il ministro per l’Innovazione e la transizione digitale.
È stato Colao a ispirare il contratto da poche migliaia di euro che il Tesoro ha firmato con McKinsey per alcune marginali mansioni nella scrittura del cosiddetto Recovery plan, il piano italiano da consegnare entro aprile per ottenere circa 200 miliardi di euro di risorse europee. E c’era il precedente: l’anno scorso, nel secondo governo Conte, Colao scelse McKinsey per una collaborazione a titolo gratuito durante la sciagurata esperienza della sua task force per la ripartenza dopo la pandemia.
Un’attrazione fatale quella tra il neoministro e la griffe globale della consulenza. Un’attrazione non casuale. L’intera carriera di Colao, 59 anni, nato a Brescia da famiglia calabrese, già amministratore delegato del gigante della telefonia Vodafone, è cominciata ed è stata forgiata nelle stanze di McKinsey, forte di una fenomenale rete di collaboratori e di ex dipendenti che hanno trovato posto ai vertici di grandi imprese nel mondo.
VITTORIO COLAO FEDERICO D'INCA'
Si rimane sempre un ragazzo di McKinsey e si propende sempre per il «metodo analitico» di McKinsey. Un metodo forse necessario nel privato, di aleatoria utilità nel pubblico. Stavolta, di sicuro, non sembra compatibile con il «metodo politico» di Draghi, che predilige le strutture statali perché da lì proviene col suo decennio da direttore generale del Tesoro e da lì ha imparato il mestiere di banchiere col suo lustro a Bankitalia. Questa attitudine fa di Colao un ministro in teoria centrale che scivola verso la periferia del governo. Dove si è marginali, o meglio: ininfluenti.
IL COMUNICATO DEL MEF SULLA CONSULENZA A MCKINSEY
Sono quelle motivazioni che non si dichiarano neppure a sé stessi, ma Colao ha accettato il ministero anche per vendicarsi della figuraccia a cui l’ha esposto il governo di Conte. Non poteva rifiutare, poi, perché l’ha cooptato il Quirinale nell’esecutivo di Draghi. Lo schema per il Recovery era Colao a un lato con la transizione digitale, Roberto Cingolani a un altro lato con la transizione ambientale e al vertice il Tesoro di Daniele Franco che fa riferimento a Palazzo Chigi.
Però lo schema si è sfaldato presto perché Colao ha ricevuto un ministero senza portafoglio, cioè senza spesa, con deleghe scarne, cioè vuote di potere, ma un delicato incarico di coordinamento per le attività del digitale sul Recovery: vuol dire tutto e niente, dipende da quanto si è incisivi. Siccome dispone di un unico dipartimento e di un organico esile, com’era per l’ex ministra Paola Pisano, Colao ha azionato subito la chiamata di emergenza e dunque ha convocato McKinsey.
VITTORIO COLAO AL QUIRINALE CON IL TROLLEY
Già l’anno scorso per la task force di Colao la società ha offerto dirigenti come Guido Frisiani, senior partner nella sede di Milano, e il collega Fabrizio Bacchini, entrambi molto referenziati per il settore delle telecomunicazioni. Per quell’incarico non serviva il nullaosta del governo. McKinsey ha prodotto «analisi di scenario e ha organizzato e sintetizzato gli incontri online» per la task force. A costo zero, si fa sapere da Colao, ma è bene ricordare che McKinsey non è un’associazione non profit, ma una multinazionale che agisce per interessi legittimi e però di parte, la sua parte. Gli stessi Frisiani e Bacchini, adesso, sono stati arruolati al ministero.
Questa volta, però, per completare l’operazione, era indispensabile il via libera del Tesoro. Il ministro Franco ha accontentato Colao e ufficialmente l’accordo con McKinsey - con un compenso di soli 25.000 euro che non giustificano né disvelano le intenzioni - riguarda una «comparazione europea e un cronoprogramma italiano del Recovery» che coinvolge i tre ministeri.
L’incarico affidato a McKinsey ha senso soltanto se si conosce l’esigenza di Colao di avere al suo fianco Frisiani e Bacchini. Il ministro per l’Innovazione e la transizione digitale ha un disperato bisogno di rendere efficace il pomposo titolo che gli hanno affibbiato, grazioso come una elegante scatola di cioccolatini, ma spietato come una elegante scatola di cioccolatini senza cioccolatini. E non ha tempo, manca un mese e mezzo alla definizione del Recovery. E non ha ruoli, il denaro per la banda larga e le strategie per il G5, materie che l’hanno reso un manager di fama internazionale, sono altrove. Allo Sviluppo Economico del ministro leghista Giancarlo Giorgetti, per esempio. Così si spiega l’istinto a rifugiarsi da McKinsey.
vittorio colao agli stati generali
Appena due anni fa, intervistato proprio da Frisiani sulla rivista trimestrale di McKinsey, Colao ha depositato le memorie della sua stagione a Vodafone. Oggi Frisiani si occupa del presente di Colao assieme a Stefano Firpo, il capo di Gabinetto. Firpo fu reclutato da Banca Intesa da Corrado Passera, ministro di due ministeri nel governo di Mario Monti tra cui lo Sviluppo Economico, ora rientra al governo dopo un anno a Mediocredito. Firpo ha un profilo tecnico, ma il capo di Gabinetto deve coprire il versante politico del ministro, ancora di più se il ministro non ha addentellati politici.
Nell’isolamento di largo di Brazzà, dov’è confinato il ministero, Colao e Firpo studiano come gestire il denaro del Recovery sotto le insegne dell’«innovazione e transizione digitale». Per non arrivare ultimi hanno deciso di consultare le aziende a controllo statale come Poste o le aziende di rilevanza pubblica come Tim per avere idee su cui investire i fondi europei. Se Colao e Firpo ci riescono, il ministero avrà una funzione nel governo. Se non ci riescono, il vantaggio di quel ministero rimane la collocazione della sede a due passi dalla fontana di Trevi.
Colao assomiglia già a una sorta di epigono di Passera. Anche il banchiere Passera era stimato, coccolato, trasversale. Anche Passera doveva innovare e snellire lo Stato. Ci ha creduto. Tant’è che si presentò al Colle da Giorgio Napolitano con un dettagliato progetto per rendere veloce e moderna l’economia italiana come se dovesse restare al governo per tre legislature. Napolitano non gradì e non nascose il suo disappunto.
Passera, mesto, se ne tornò in ufficio con quell’ammasso di carta, non compreso da Napolitano e mal sopportato dal premier Monti. All’inizio anche Passera fu aiutato da McKinsey per ridisegnare la macchina statale. Non serve neppure porsi la domanda: sì, pure Passera ha lavorato in McKinsey. L’Italia è piena di ex McKinsey. Paolo Scaroni, presidente del Milan, una dozzina di anni fra Enel ed Eni. Alessandro Profumo, già amministratore delegato di Unicredit, presidente del Monte dei Paschi e attuale ad di Leonardo/Finmeccanica. Francesco Caio, già ad di Poste Italiane, presidente di Saipem e la compagnia aerea Ita (la prossima Alitalia). Fabrizio Palermo, ex direttore finanziario di Fincantieri, oggi a capo di Cassa depositi e prestiti.
La ragnatela di McKinsey, che raggiunge i posti di comando di grosse imprese internazionali, si è rivelata formidabile per le relazioni e dunque per i profitti della società americana. Un’ampia letteratura, tra libri e inchieste giornalistiche, descrive questa ragnatela di professionisti della gestione aziendale come un comitato d’affari in grado di tessere trame più o meno occulte.
I rapporti sorti all’interno di quello che appare, e si autorappresenta, come un corpo d’élite tornano preziosi per consolidare carriere e alleanze. Ecco un esempio concreto. Alla fine del 2013 Colao chiamò in Vodafone Aldo Bisio, un ex partner McKinsey che fu messo alla guida delle attività italiane. I due manager avevano una lunga consuetudine di lavoro in comune. Già nove anni prima, Bisio era sbarcato in Rcs-Corriere della Sera al seguito di Colao amministratore delegato del gruppo editoriale.
Questione di settimane e la coppia ex McKinsey potrebbe incrociarsi ancora una volta, poiché Vodafone Italia è in prima linea sul fronte dell’evoluzione digitale e Bisio di certo non faticherà a ottenere udienza al ministero di largo di Brazzà. La conferma la si può rintracciare in un video pubblicato lunedì otto marzo sul canale Yotube dell’università Bocconi in cui Bisio, a colloquio con il rettore Gianmario Verona, senza mai citare l’amico e mentore Colao, si definisce ottimista sull’operato nelle telecomunicazioni del governo Draghi.
L’addio di Colao alla multinazionale della telefonia è recente. Era il settembre del 2018 quando il manager italiano lasciò Londra dopo dieci anni al comando della multinazionale britannica e altrettanti in posizioni di vertice dello stesso gruppo, che vale 45 miliardi di euro di fatturato.
Nel mezzo, un intervallo di due anni come amministratore delegato di Rcs, dove il pragmatico manager bresciano si scontrò sin da subito con il variegato parterre di azionisti del Corriere della Sera. Le dimissioni arrivarono nel luglio del 2006 e tre mesi dopo Colao volò a Londra come capo europeo di Vodafone. Una scalata di manager abile a immaginare e anticipare un mercato in rapidissima trasformazione, dai telefoni Gsm di un quarto di secolo fa al 5G dei giorni nostri.
«Sto reinventando me stesso», confessò Colao nell’estate di due anni fa. Allora il futuro ministro era dato in rampa di lancio verso il comitato organizzatore delle Olimpiadi del 2026, quelle di Milano e Cortina. Alla fine, il governo Conte, quello giallorosso, indicò un altro manager della telefonia, Vincenzo Novari, già capo di Tre. Fu il fondo americano General Atlantic, invece, ingaggiare Colao come special advisor.
Lo stesso fondo che ad aprile dello scorso anno, nel pieno della prima ondata della pandemia, annunciò di essere pronto a investire 5 miliardi di dollari nei cosiddetti “distressed assets”, cioè nelle aziende messe al tappeto dalla crisi. A luglio del 2018 General Atlantic aveva puntato 250 milioni di dollari su un gruppo finanziario in crescita. Si chiamava Greensill capital e pochi giorni fa, l’8 marzo, è stato travolto da un fallimento miliardario che ha fatto scalpore a Londra. Nel frattempo, Colao è andato al governo di Roma e il giorno dopo il giuramento ha lasciato l’incarico nel fondo Usa. Perché le carriere non si macchiano. Semmai si lucidano. Con McKinsey.