UN SECOLO DI “UNITA’” – IL GIORNALISTA ROBERTO ROSCANI RACCONTA IN UN LIBRO LA STORIA DEL QUOTIDIANO ORGANO DEL PCI FONDATO 100 ANNI FA - LA PEDAGOGIA A TRATTI PLUMBEA DI TOGLIATTI (DIRETTORE OMBRA), IL DELITTO PASOLINI, L’ADDIO DI CALVINO AL PARTITO COMUNISTA – “L’UNITÀ ERA UN IMPASTO COMPLICATO TRA UNA SCUOLA DI FORMAZIONE ALLA POLITICA E ALLA CULTURA E UNA BANDIERA FATTA DI PAROLE. C’E’ CHI PENSA CHE FOSSE UN GIORNALE GRIGIO. IO RICORDO INVECE UN GRUPPO DI GIORNALISTI CHE “ROMPEVA LE SCATOLE”….”
Da adnkronos.com - Estratt
Una storia lunga cento anni. Un quotidiano che ha accompagnato l'evoluzione della società italiana descrivendone i cambiamenti, i passaggi politici più complessi e i fatti di cronaca che hanno colpito l'opinione pubblica. Eventi tragici come il delitto Pasolini, oppure l'addio di Calvino al partito Comunista.
(...) Vicende che il giornalista Roberto Roscani racconta nel volume 'L'Unità. Una storia, tante storie', pubblicato da Fandango Libri. Giovane militante del partito Comunista, Roscani entra a far parte della redazione romana del quotidiano nei primi anni Settanta rimanendovi fino al 2.000, quando il giornale chiude improvvisamente.
"Prima ancora di scriverci - racconta Roscani nell'introduzione del suo libro - l'Unità l'ho letta. Ma per prima cosa l'ho diffusa. Non venduta. Non dovete immaginare gli strilloni col giornale che ancora qualche anno fa si vedevano ai semafori. Diffondere voleva dire andare nelle case, suonando ai campanelli di domenica mattina, farsi dire cento no e qualche sì. A Ponte Milvio, il mio quartiere e la mia sezione del Pci, ne facevamo arrivare ogni domenica cento, duecento copie all'edicola in piazza".
Dalla diffusione, Rusconi è poi passato a scrivere per il quotidiano che, di fatto, è diventato la sua 'casa' per tanti anni. "Poi all'Unità ci sono finito dentro ed è diventata casa mia per decenni, fino a quando, in un'estate dell'Anno Santo, con Roma invasa di pellegrini e Papaboys, a fine luglio del 2000, non ha chiuso i battenti", afferma Roscani. Così, capitolo dopo capitolo, l'autore mette in scena le vicende redazionali rappresentando, al tempo stesso, la vita culturale e politica del Paese raccontata dal giornale. Facendo leva sui suoi ricordi e sull'esperienza maturata sul campo, il giornalista ritrae anche i colleghi, direttori e non solo, che con il loro impegno hanno contribuito a trasformare L'Unità in un punto di riferimento per generazioni di militanti e di avversari politici.
C’ERA UNA VOLTA L’UNITÀ: I CENTO ANNI DEL GIORNALE CHE FU DEL PCI
Testo di Roberto Roscani pubblicato da La Repubblica
Via dei Taurini 19, Roma. L’indirizzo era questo. Nel cuore di San Lorenzo, a due passi dall’università (allora ce n’era una sola, la Sapienza). Un palazzo fine anni Cinquanta, modernista. L’insegna luminosa scendeva lungo un angolo dell’edificio: “l’Unità”, c’era scritto. È stata casa mia dal 1974 a quando ce ne siamo andati vent’anni dopo, verso un’altra casa a via Tomacelli in un palazzo di cui resta solo la facciata e dentro al quale ora c’è un mega store. Che cos’era l’Unità? Un giornale, ma non solo. Che cosa eravamo noi che ci lavoravamo dentro? Dei giornalisti, ma non solo.
Per chi la leggeva, l’Unità era un impasto complicato tra una scuola di formazione alla politica e alla cultura e una bandiera fatta di parole. Per tantissimi, andare con l’Unità in tasca, con la testata ben visibile, era il modo per ribadire una identità, quelle foto di manifestanti col giornale tenuto aperto con due mani ci raccontano questo.
Per chi ci lavorava, l’Unità era un impasto altrettanto complesso: comunisti, certo, giornalisti anche. Nel giornale che ho vissuto io, dai primi Settanta, quelli del massimo consenso al Pci, in una Italia che cambiava rapidamente (e con un giornale che moltiplicava le vendite) a quelli più difficili segnati dalla scomparsa di Berlinguer e dalla crisi radicale dei modelli del “socialismo reale” della faticosa trasformazione del partito, parte del cammino di questa trasformazione dell’Unità si era già compiuta.
Noi percorremmo il resto di quella strada tra l’affermazione di un ruolo più decisamente giornalistico della nostra professione e i rischi di declino dell’immagine del quotidiano. Tra alti e bassi, tra crisi e mutamenti che hanno formato una generazione intera di giornalisti, gli stessi che, come in una diaspora, hanno poi portato i semi di questa esperienza anche in molti altri giornali.
(…)
Qualcuno può pensare che l’Unità – dentro la sua corazza di “organo del Partito Comunista Italiano”, così c’era scritto sotto la testata – fosse un giornale grigio. Io ricordo invece un gruppo di giornalisti che discuteva su tutto, che “rompeva le scatole”. Si dice che il direttore di un giornale sia un monarca assoluto. Quelli che ho conosciuto io non hanno mai chiuso una discussione con un’alzata di spalle o facendosi forza del loro ruolo. E forse questa è stata insieme una ricchezza e un problema di quel giornale.
Ricordo giornate febbrili, talvolta tragiche. Ricordo un coinvolgimento che non era solo professionale davanti alle grandi svolte della nostra storia. L’emozione e l’ansia per il rapimento Moro (personale e collettiva), il dolore per l’agonia e la morte di Berlinguer che si trasformava però in idee.
Quei giorni furono davvero fuori dall’ordinario: ci furono una gran quantità di edizioni straordinarie e la capacità di trasformare un sentimento che accomunava un intero Paese (e dentro questo, con maggiore intensità, quello che si chiamava allora il “popolo comunista”) in pagine di giornale, coi loro titoli sempre più brevi fino a diventare di una sola parola: “TUTTI”, diceva uno, “ADDIO” quello con cui fu salutato a piazza San Giovanni un leader così diverso dagli altri come era stato Berlinguer. Il merito va dato soprattutto a un vecchio giornalista che si chiama Carlo Ricchini, lo stesso che qualche mese prima aveva “inventato” quel titolo a caratteri tutti maiuscoli e scritto in rosso: “ECCOCI”, e con quel giornale in mano Berlinguer era stato fotografato mentre sfilavano decine di migliaia di operai per le vie di Roma.
Altro che egemonia
Dentro questo giornale sono cresciuto. Si lavorava moltissimo. Ho vissuto l’epoca delle vecchie tipografie fatte di linotype, di articoli composti da moltissime di righe di piombo e di grandi banchi con telai per impaginare il giornale. E poi quella dei computer. Ho visto cambiare la cultura della sinistra, aprirsi a esperienze nuove, a voci talvolta lontane con cui dialogare. Oggi si fa tanto parlare di egemonia culturale (nella chiave vendicativa con cui lo fa la nostra destra) come una questione di appropriazione indebita. Noi, invece , allora sperimentavamo l’apertura ad una complessità di pensiero tra culture che avevano voglia di parlarsi.
È un ritratto troppo ottimistico? Non credo, anche se di passi falsi, di incidenti è costellata la strada dell’Unità. Avendo scelto di raccontane almeno una parte, però, mi pare di poter dire che quel giornale è stato un segmento importante della cultura e della storia di questo Paese e delle sue trasformazioni. E che, anche editorialmente, siamo riusciti a mettere in campo innovazioni (i libri, i film, il giornale con un dorso culturale) che hanno fatto scuola.
Per raccontare quel giornale ho usato spesso il noi. Non è un caso. Credo sia questa la caratteristica che più segna l’Unità. A lungo all’interno abbiamo discusso se considerarci un gruppo di lavoro o un “collettivo”. Oggi la definizione più corretta è quella di una comunità: complicata, con tante idee diverse, talvolta litigiosa, ma tenuta insieme da una passione comune che era politica ma anche professionale. E persino quel nome, l’Unità, voluto cent’anni fa da Antonio Gramsci, con l’idea di fare un giornale di opposizione al fascismo che potesse essere di tutti e non solo di un partito, era – come avrebbe detto Marshall McLuhan – contemporaneamente il mezzo che conteneva al suo interno questo messaggio.